Cees Nooteboom in “Tumbas” dice che: «Le tombe sono ambigue: custodiscono qualcosa e non custodiscono niente». Ma trattandosi della tomba di uno scrittore, le cose son un po’ diverse tanto che gli scrittori continuano a parlare. Non avevo fatto un ragionamento simile nel 2004, quando a Buenos Aires andai a cercare la tomba di Osvaldo Soriano, che era morto nel 1997. E non sapevo di Nooteboom – anche perché lui non aveva ancora scritto quel libro – ma avevo letto Soriano che a Los Angeles andò al cimitero di Forest Law a visitare la tomba di Stan Lauren – come aveva fatto nel suo romanzo “Triste, solitario y final” – lasciando una copia del suo libro. Poi voleva anche andare a La Jolla a visitare quella di Chandler, ma non ci riuscì. Nooteboom dice ancora che i morti sono fiumi che non temono di diventare mare. Disperdendosi, con le tombe che diventano i porti d’imbarco. A Buenos Aires ero arrivato perché Diego Armando Maradona rischiava proprio quell’imbarco. Mi dividevo tra la clinica svizo-argentina dove era ricoverato, le partite del Boca Juniors, la scoperta della città, e il tentativo di accorciare la distanza che mi separava da Osvaldo Soriano.
Chacarita cementerio, enorme, come il cielo qui, che curva sull’orizzonte. Al posto delle nuvole l’ordine delle diagonali: filano via dritte con il recinto di mura, possenti pareti che videro le fucilazioni di molti anarchici, anche italiani. Contrasto. Lo sfarzo delle cappelle. Appena si varca la soglia da tempio greco: timpano e marmo, tutti vogliono portarti da Carlos Gardel. «No, grazie cerco Osvaldo Soriano». In lingua si dice buscando, e fa pensare a qualcosa che si deve guadagnare. Così sarà. Dribblati i sostenitori di Gardel bisogna trovare quelli di Soriano: calciatore, giornalista, scrittore. Impossibile non sapere di lui. El Gordo divenne famoso con un esordio fulminante: “Triste, solitario y final”. Dopo il golpe militare scelse l’esilio in Europa: prima a Bruxelles (al suo amico Osvaldo Bayer dirà che “si guadagna da vivere contando anatre al lago della città”, lasciandogli il dubbio che fosse vero) e poi a Parigi. In quegli anni raccontò come un western la situazione argentina in “Mai più pene né oblio”. In gioventù era stato il centravanti mancino – che quasi ammazza un cane con un tiro – del Confluencia una squadra di un paese: Cipolletti, fondata all’inizio del ‘900 da un ingegnere italiano. Smise per un infortunio, ma a Orlando el Sucio uno dei suoi allenatori che gli chiese: come fosse finito «a scrivere stupidate in un giornale» rispose: «Non so, un giorno la porta mi si è ristretta». Aveva prontezza lingua, leggerezza, musica nella scrittura, e un carico di personaggi da portare in giro. Su tutti suo padre, fisicamente un Dashiell Hammett argentino, che si lanciava in battaglie donchisciottesche e inveiva a porte chiuse contro le foto della coppia presidenziale Evita-Perón. E dietro: Oliver Hardy e Stan Laurel, il figlio di Butch Cassidy, don Salvatore pianista del Colon e Gardel, el gato Dìaz che parò il rigore più lungo del mondo, Obdulio Varela che spense i sogni del Brasile nel ’50, la centrifuga Monzón e il pugile suonato Tony Rocha: “faccia triste e braccio lungo come una pompa da incendio”, Maradona e la spia disoccupata de “L’occhio della patria”, le sue partite infinite e strampalate, le vittorie del San Lorenzo de Almagro, che fece in tempo a veder trionfare negli anni novanta nel campionato argentino, evento che non si replica facilmente un po’ come lo scudetto del Napoli. Mescolava fiction e realtà, senza perdere colpi. Amava i film muti fin da bambino, la passione gli era nata in un treno per San Luis dai racconti della madre. Il suo libro migliore è “L’ora senz’ombra”, quello più divertente “La resa del leone”. Nella hall di un albergo di Colonia giocava con Marcello Mastroianni e il suo professore de I compagni: «Senta, scusi, che paese è questo?» e dopo una pausa: «Questo è un paese di merda». Ecco chi stiamo cercando: un eterno bambino, morto troppo preso il 29 gennaio del 1997, sepolto da qualche parte in questa necropoli.
Questo scrivevo per presentare la mia ricerca, ero andato comunque al cimitero nonostante tutti mi sconsigliassero, ma avevo letto un racconto Eduardo Galeano dove diceva che la tomba di Soriano era un posto magico, potevo correre il rischio. «L’essenziale resta l’invisibile» – dice Nooteboom – «il lettore vede sulla tomba del poeta quel che non vede nessun altro».
Sulla destra c’è un gruppo di uomini che spazza i larghi viali. Proviamo con loro. Non conoscono Soriano. Mi indicano una casita dove con il pc possono trovarlo. Invano. Un poliziotto con la faccia da bambino, gli occhi stretti da topo, un giubbotto due volte la sua misura, e una pistola che gli spunta prepotente dall’anca, è alle prese con un mate, prima delle domande, già declina una serie di no. «Oggi è sabato, non si può». Mi spiega che i morti qui si cercano per numero di sepoltura e non per nome. Come cercare la gente per età. Comincio a vagare lungo i viali. Tre certezze: il nome, l’anno della morte e la sepoltura che permette di scartare le cappelle. Alè. Da scommetterci che Osvaldo Soriano in quegli armadi di marmo con angeli, madonne, uccelli che ronzano intorno, non ci sarebbe finito. Prigioniero dello sfarzo oltre che della morte. No. Intanto non smetto di chiedere a tutti quelli che incontro. Ma appena si domanda, qualunque cosa, loro partono: «Gardel, Corsini, Magaldi», un po’ come il nostro «Zoff, Gentile, Cabrini», solo che non è una linea difensiva, ma la gloria del tango. E se uno straniero cerca qualcosa riguarda il tango, il resto non conta. Uno dice di cercare nel pantheon dei periodisti (giornalisti). Chiuso. Le speranze si infrangono sulle scale di accesso. Comincia a prendere piede lo sconforto. Passa un uomo in blu, indossa una divisa da fattorino grandhotel. Lo blocco. Conosce Soriano. «Escritor de “cuentos de los años felices”». Bene. Ma non ha idea di dove sia sepolto in questo labirinto di marmo. Prospetta anche l’ipotesi che si stato spostato. È qui, insisto. Da qualche parte. L’uomo smilzo, silenzioso, orecchie dondolanti da ingresso saloon, e ciuffo alzato, non molla. Vuole aiutarmi. Lo seguo. Andiamo da Pablo. Custode alla cappella degli autori musicali. «Lui sa tutto». Dice. È il vecchio. L’odore: da spogliatoio. Sudore, scarpe vecchie e vita giocata. Emerge da una scala buia. Calvo, occhiali spessi e denti sporgenti come gambe da can can. Tira fuori un mucchio di registri e non ascolta quello che dico. Io mi incazzo provo a spiegargli che non voglio storie di altri, voglio Soriano, la sua tomba. Lo smilzo fa segno di lasciar fare. Osvaldo non si trova. Il nostro uomo propone un nuovo oracolo: José. Altissimo, curvo, mascella fuori posto, un disco rotto. Occhiali a goccia di sbieco tra naso e orecchie. Barbetta rossa che corre sul viso e piedi da oca. Zampetta davanti. Noi gli andiamo dietro. Un’ora dopo siamo al punto di partenza. I due angeli custodi, comici, inutili, si arrendono. Io no. Attraverso la diagonale che taglia le cappelle, di nuovo. Questa volta senza fermate. Supero le stecche eleganti dell’esercito, arrivando ai sepolti in terra. Di lato passa una Ford d’altra epoca. Alla guida un ragazzo. Faccia scura. Un cane per finestrino, che ringhia. Stereo a palla. Lo seguo con gli occhi, percorrendo un viale che dal 2004 ci porta indietro nel tempo. Sotto, accanto ai piedi, visi e nomi di sconosciuti. Scalando gli anni, arrivo al 1997. Avanzo con lentezza. Trovo il suo nome in testa a un semplice cordolo di cemento, ricoperto da unghia di gatto. Una specie di prato inglese con fiorellini viola.
«Chi si aggira nel mondo dei morti si muove all’interno di un paradosso – scrive ancora Nooteboom – «guardando le matite e le lettere bagnate dalla pioggia sulle tombe di Vallejo e Cortázar, mi è tornata alla mente una scena del racconto di Cortázar da cui è stato in seguito tratto “Blow up”. Due persone giocano a tennis, ma senza palla. La palla inesistente rimbalza avanti e indietro al di sopra della rete finché a un certo punto esce dal campo e vola fuori superando l’alto recinto. Uno che non ha niente a che fare con il gioco raccatta la palla, che continua a non esistere, e la rilancia ai giocatori che riprendono la loro partita. Chi non crede in questo non lascia una boccetta di profumo o una sigaretta sulla tomba di Baudelaire, non lascia fiori su quella di Proust».
Il gioco del mondo. Semplice. Come altri. Circondato da croci anonime, sta fermo a guardarci passare. Lontano, sconosciuto, da guadagnare. A Poca distanza dalla tomba c’è la copia di Rutger Hauer, il replicante di Blade runner, e sorride. Capelli bianchissimi a spazzola. Grandi occhi che inchiodano. Un vissuto bomber dei Lakers. Nelle mani una scopa gialla. Pelle chiara e viso allegro, trasmette serenità. Carlo Faggiano si chiama. Nato a Montoro in provincia di Avellino. Da 40 anni a Buenos Aires. Custode di questo mozzico di terra. Racconta la sua vita. Più sorpreso di me. Rimaniamo a parlare a lungo di tutti quelli che vengono, e davvero lasciano lettere e parlano da soli. Carlo tifa Boca, aspetta un nuovo Maradona e consiglia di passare da Gardel. El Zorzal pare che porti fortuna, riceve in piedi sulla sua tomba con la mano tesa e il sorriso eterno che ha stregato un continente, tutti hanno la sua voce nelle orecchie e un aneddoto da giocarsi con gli stranieri, mancano le note del tango, cucite per gli addii. C’è solo silenzio, e la malinconia del passato.
Il vecchio Nooteboom dice che la natura non si cura di quello che facciamo, o forse, come sempre, finge.
Finge, finge.