“Non era l’immagine esatta della sua epoca? Sistemi complessi, madornali, erano pilotati da incompetenti assoluti, che badavano solo al funzionamento immediato, ma non avevano nessuna idea di cosa stessero cavalcando, e però riuscivano a farlo lo stesso”.
Che si è tutti in debito di senso, la nostra epoca lo rivela a scadenza quotidiana. Epoca attraversata da orde di precari, NET, startupper, botulinati, depressi, selfati, infelici, postideologici, genderiani, followers, youtubers, golosi di Like, logorroici di post, multitasking. Un parco a tema per antropologi 2.0 o per sociologi codini pronti a sfornare teorie sulla solitudine global. Senza dimenticare, nell’anno del Giubileo, teologi e moralisti infervorati a sollevare tutta questa umanità, accomodata davanti ad un video o sul lettino dell’analista, per scaraventarla oltre una santa soglia. Dove stanno i miti, le fedi, le idee con cui battagliare contro l’insensata ferocia della vita e dei tempi? Nietzsche così parlò dello spirito libero malato:
“Lo circonda e lo stringe la solitudine, sempre più minacciosa, soffocante, angosciosa, dea terribile e mater saeva cupidinum — ma oggi, chi sa cosa sia la solitudine?…” (“Umano troppo umano”).
Immaginiamo questa domanda planare sugli studi di uno dei tanti talkshow: con repentina smorfia gli opinionisti “di tutto esperti ” sberciando tra plastici e poltrone lanciano fiotti di parole che prendono forma –ahinoi! informe- di soluzioni e tesi. La solitudine è percorso biografico ed emotivo impossibile da collocare dentro parole definitive. Tutt’al più si può proiettare dentro una finzione, dentro una narrazione. E il disincanto del mondo che attanaglia la generazione contemporanea può trovare così una sua visione. O un cronovisore. Un aggeggio fantascientifico e fantasioso che ridandoci il dettato del passato ci sollevi dal sospetto che l’insensatezza della nostra epoca sia senza via d’uscita. Il cronovisore è il Graal del nostro tempo e la sua quete sta nell’ultimo romanzo di Tiziano Scarpa “Il brevetto del geco” (Einaudi, pagg.321).
Aprire un libro e trovarvi un universo scriteriato è senza dubbio appassionante. “Il brevetto del Geco” di Tiziano Scarpa (premio Strega 2009 per Stabat mater) è abbastanza scriteriato. Nella trama, nei personaggi, nel senso. Aspira ad essere un libro-mondo: dentro c’è tutto il tempo nelle sue declinazioni e la nostra epoca umana allucinata tra realtà e rete, immersa nella solitudine e nel disincanto, impegnata in girotondi esistenziali tra aspirazioni artistiche e religiose, mentre malamente schiva gli sgambetti del mondano tutto denaro e narcisismo. Tiziano Scarpa lo racconta attraverso la storia di tre personaggi due nonvolenti e uno nonvoluto – Adele, Federico e l’Interrotto. Adele vive da sola finché un geco non le cambia l’esistenza. Federico è un artista spiantato che galleggia tra una didascalica idea di Bellezza e un urgente impulso all’invidia, finché il rotare dell’oblò di una lavatrice lo proietta fuori dalla sua ossessione. L’Interrotto è la voce narrante, è le parole, è il testimone della ricerca del senso degli altri due personaggi, le cui storie procedono con un intreccio spacciato per parallelismo, fino a quando si ritrovano intorno allo stesso tavolo, in una Venezia addobbata per la Biennale. Sullo sfondo di questa storia una sedicente organizzazione religiosa e il recupero del cronovisore, con cui Adele e Ottavio fondatori della “Nuova Sovversione Cristiana” vorrebbero riportare sulla Terra la conoscenza del vero messaggio di Cristo, del Verbo divino.
Le vicende conquistano spazio narrativo sottraendolo al pullulare di citazioni artistiche e letterarie, riferimenti ai Vangeli in forma simbolica e rovesciata, riflessioni sull’arte e sul linguaggio, descrizioni di luoghi e opere d’arte antica e performances e istallazioni, feroce critica alla Chiesa istituzionale e all’Arte contemporanea, aspirazioni palingenetiche e tanto umorismo.
“Il brevetto del geco” ha un pregio: la genialità di realizzare la parola, di mostrarcela quale archetipo del testo, di raccontarci il percorso eroico e surreale del suo evolversi semiologico, da segno a testo.
“Noi parole eravamo pronte a ogni evenienza” …Prendemmo fiato, ci immergemmo. Sott’acqua, si sentiva il rombo delle eliche….Sprofondavamo, inoltrandoci nel verde acqueo sempre più denso, sempre più scuro….; toccammo il fondo” . Il fondale della laguna è pieno di immondizia, di oggetti abbandonati e “Noi parole diventammo tutte quelle cose agglutinate impalpabilmente nella melma….Noi parole turbinammo su noi stesse, come una dinamo mantecando il malsano lucore del fondale con la luce del sole distesa sul soffitto acqueo, lassù, sopra di noi”
Il noi–narrante, concede alla parola l’aureola, vi riconosce la potenza creatrice, fondativa, originaria. Ma il “verbìcolo iconico” (sedotto da Apollinaire) è anche assillato dall’ansia della detronizzazione ad opera dei nuovi barbari.
“ …è successa a noi parole in questi anni: non bastiamo a noi stesse, chiunque può sfondarci con un link, facendoci diventare una soglia….Siamo un bersaglio sensibile, evidenziato; cambiamo colore e formato quando siamo sfiorate dal puntatore o da un dito sullo schermo”
Si traduce, con un umorismo spiazzante e denso, l’epos rimbaudiano, della nascita latente dei segni, nei simboli in cui si muovono le “succulente carcasse” degli squinternati personaggi di questo faticoso romanzo. Faticoso quanto una sciarada per colti e navigati enigmisti. Non si fa in tempo a trovare l’incastro tra la solitudine e il geco, che il geco deve incastrarsi nel sacro e poi il sacro nel cronovisore e ancora il cronovisore in Dio.
“Cristo, certo cos’altro? Onnipotente, sempiterno, qui adesso. Infinitamente più esistente del passato ‹‹ Ma cosa si vedeva in concreto? ››…‹‹ Una nebbiolina elettronica, come quando la sintonizzazione è difettosa››”
Si è rassicurati nell’aver incastrato il fallimento nella lavatrice e poi in una sacra famiglia inattuata, che si deve trovare la combinazione tra arte e sacro: in verità sarebbe quella più semplice, se non si mettesse in mezzo – nell’incastro- proprio questa nostra epoca insensata che non cerca Dio e non sa riconoscere la Bellezza, non capisce che Il Verbo è Mistero e che l’Arte è ciò che più svela quel Mistero.
“Non erano anche loro, gli artisti, i messaggeri di un altro mondo?”
Il libro di Scarpa è un romanzo distopico. Mette in discussione il nostro tempo con sagacia e amarezza, con impazienza. L’impazienza sta nel vorticoso rincorrersi dei personaggi tra anonimato e riscatto (la non-Viviana è il più riuscito), sta nell’inappellabile giudizio a favore della Tradizione e nello sguardo patetico e quasi nauseato rivolto al fanatismo dei Cristiani Sovversivi e dell’Arte delle Abramovic, delle Hatoum, dei Klein. Un’impazienza alleggerita dall’umorismo, dall’ironia. Che persino offre al lettore la chicca. Di dubitare se Tiziano Scarpa sia l’Interrotto o il geco.
“L’uomo alzò lo sguardo. Aveva una calotta cranica pelata, gli occhiali dalla montatura di plastica, due baffi chiari spruzzati di peli bianchi. Era l’autoritratto di Tiziano Scarpa, l’autore che ha prestato il suo nome a questo libro, scritto da noi parole”.
Magari non è un dubbio ma un’altra sciarada. Magari qualche lettore farà un incastro se ricorderà che un altro artista ha firmato con un geco le sue architetture: Vermexio a Siracusa.