Siamo tutti nella stessa barca, quella che naviga nel mare della ferocia. Le nostre parole combattono la prima battaglia, la battaglia della civiltà. Pochi giorni fa, un maestro di letteratura, Pietro Citati ha scritto, “La poesia è lo scopo antropologico della razza umana.” Per questo, l’attenzione ora cade sull’opera di Giuseppe Conte, poeta stimato da Italo Calvino e Mario Soldati. La recente pubblicazione, “Giuseppe Conte. Poesie (1983-2015)” apre un confronto sul destino della poesia e sugli scopi di un poeta definito “un anti-moderno di destra”.
“Sono figlio di Fiume, della città di vita dallo spirito di un Poeta conquistata e tenuta / del coraggio di aviatori come Aldo Bini e Giovanni Zeppegno / cui nessuna piazza d’Italia è intitolata.” Il panorama della poesia contemporanea non è sempre grigio. Ci sono voci, come quella di Conte, che cantano il coraggio e la dignità. Ci bastano poche parole per capire che, in questa esperienza di versi, la resistenza ideale non si è logorata,“ Tutto quello che è sacro, tenebroso e luce-creante e sacro e/ invincibile mi ha generato…”
Il poeta non perde l’occasione per ricordare gli eroi, i marinai, i libri che sono “sogno-creanti, l’Iliade, Foglie d’erba, Borges, Spengler, disegni del destino…” Nell’opera di Conte ci avviciniamo ad un racconto di tensioni storiche, di rispetto della Natura e della memoria dei morti. Ai poeti non dobbiamo chiedere nulla, si sa. Eppure chiediamo a Giuseppe Conte di rimanere il poeta del primato etico, della storia dei padri, dell’alba perduta, “di Cromwell, di Milton, degli uomini a cavallo che dettano col ferro le loro leggi severe.”
Le parole sono speranze. La poesia è l’ultima speranza, anche per “questa Europa cieca” cantata nel “Salmo 2.” La dura attualità ci raggiunge, ci spiega che il nostro continente è “cenere e liquami / dove sono sovrani incontrastati / Nulla e Ipermercati.” I versi qui sono schegge incandescenti mentre la poesia di Conte non abbandona la sensibilità politica, una sensibilità che sentiamo vicina. Poi, egli dichiara che “Il mio amore per la tradizione e per il mito potrebbe farmi sembrare di destra, ma io amo i miti irlandesi, come quelli degli indiani d’America. (…) I miei valori sono il senso del Sacro, la Madre Terra e la Persona. Non so se si tratta di ideali di destra o di sinistra. L’Italia è un paese di pregiudizi”, così il lettore ritrova in lui una voce alternativa. E se Conte precisa che la sua opera non si identifica con nessuna visione politica – Cfr. Corriere della Sera, ‘Lettura’ -, questo non colpisce in un’epoca nella quale le categorie ideologiche sono esaurite. Sono frantumate le visioni complessive, però, l’arte ha la possibilità di schierarsi e Conte lo fa quando canta la difesa della Terra, quando rivitalizza la tradizione nazionale.
C’è una strada, da percorrere, sulla quale gridare, in faccia agli uomini, i versi di Pound o di Mandel’štam. Cioè, i versi di chi è figlio di sconfitte storiche o di società che hanno sbranato l’umanità, facendo sparire la poesia. Queste società, per usare le parole di Conte, indicano che “la scomparsa della poesia dalle società occidentali non testimonia una crisi della poesia quanto una patologia di queste società stesse.” (da “Manuale di poesia”)
Scrive Giorgio Ficara nell’introduzione al testo mondadoriano, “Chi non ama Conte gli rimprovera di parlare d’altro (d’ideologia, più che di poesia, di politica, più che di tecnica), o di parlare in falsetto: di credersi d’Annunzio in armi o al Carnaro, di essere ingenuo.” Ma, ai lettori di questo poeta, basteranno i suoi versi, mai minimalisti, per difendere il coraggio della poesia, per riconoscere una vera voce occidentale, “Eppure anch’io combatto, e prego e costruisco; anch’io ho fatto / crescere alberi e fiori sulle pagine / ho portato il marmo greco tra le foreste di querce e vischio e i torrenti in piena dei Celti.”
“Giuseppe Conte. Poesie (1983-2015)”, Oscar Mondadori, 2015, euro 22,00