Ieri è andato in scena, a Taranto, un esperimento di democrazia: un referendum consultivo. Arma che i cittadini hanno a disposizione quando vogliono interrogare la collettività su un problema che riguarda il bene comune. Tutti sanno che nella città dei due mari, da fine luglio, è in atto e in onda la vertenza che riguarda le sorti del più grande stabilimento siderurgico d’Europa, l’Ilva, che chiama in causa il destino di ventimila lavoratori, l’assetto economico di una provincia intera (oltre che del mercato italiano dell’acciaio) e da tempo è sotto l’occhio del ciclone per una gestione, secondo i magistrati della Procura e non solo, che da tempo ha sforato i livelli accettabili di tollerabilità ambientale e sanitaria.
Facciamo questo riassunto anche per avvertire il lettore che l’idea, abilmente inoculata da qualche giornalista che ha preso a cuore la causa ambientalista e le sue derivazioni più radicali, di una città interamente schierata contro il Siderurgico era, è e sarà una gigantesca bolla mediatica. Questo ci serve a introdurre il tema del doppio referendum che, come tutti sanno, ieri si è schiantato in livelli trascurabili di partecipazione: i due quesiti, infatti, riguardavano la chiusura parziale o totale dello Stabilimento. Si trattava, dunque, di un referendum bislacco nelle motivazioni e malposto nella domanda che si faceva ai tarantini, come se qualcuno (a parte una minoranza ambientalqualunquista che ha isterizzato il dibattito popolarizzando, grazie a talk show pomeridiani e serali, assieme a qualche inviato che ha scambiato le opinioni di pochi per l’umore di una città intera) potesse davvero ritenere plausibile bloccare l’attività di un impianto che, piaccia o non piaccia, è tutt’uno con la storia della più grande città industriale del Meridione. Per mesi e mesi è passata l’immagine di una città devastata dalla malattia e dalla morte, isolata e incompresa dal resto d’Italia, e decisa a “riprendersi” un non ben specificato futuro all’insegna del rifiuto totale dell’industria di territorio: l’ambientalqualunquismo, ovvero la versione riveduta e corretta della sindrome “nimby” (addirittura si è sostenuto a più riprese che lo Stabilimento poteva essere chiuso in quanto la maggioranza dei lavoratori Ilva non risiedeva nel comune di Taranto, e altre amenità del genere), ha gonfiato il petto e sostenuto una battaglia che, per dire, ha fatto scappare a gambe levate gli emissari del porto di Rotterdam arrivati a Taranto con l’idea di una joint venture tra i due porti commercial-industriali. In questo modo, a Taranto le rivendicazioni legittime di una maggiore tutela dell’ambiente e di lotta senza quartiere ai numeri critici delle malattie tumorali, oltre che l’azione della magistratura volta ad accertare le responsabilità del gruppo Riva in questo processo, sono state gettate in un calderone demagogico in cui hanno rischiato di affogare, o perlomeno di non essere più distinguibili dalle manifestazioni in cui una minoranza, organizzata e chiassosa, ha chiesto a più riprese nient’altro che la chiusura dell’Ilva. Un errore tattico e strategico micidiale che ha portato la minoranza ambientalqualunquista a combattere l’azione dell’unico che ha provato a mettere ordine nel caos tarantino, il ministro dell’ambiente Corrado Clini: la sua Autorizzazione Integrata ambientale, infatti, compreso il decreto – trasformato in legge – che autorizza la produzione negli stabilimenti industriali che devono mettersi a norma, subordinandola alle prescrizioni dell’AIA, è stata combattuta frontalmente, fino che a pochi giorni fa la Corte Costituzionale ha dato ragione a Clini su tutta la linea. Una prima mazzata, dopo tanto tempo perso a sostenere l’incostituzionalità della legge salva-industria, a cui si è cercato di rimediare convogliando tutte le energie di mobilitazione nel referendum di ieri. Risultato: nemmeno un tarantino su cinque è andato a votare. Il referendum, data l’attuazione dell’Aia, in verità era già stato superato dagli eventi, ma si è voluto “testare” l’orientamento della popolazione verso la chiusura del Siderurgico.
Adesso, se la democrazia ha ancora un senso, la volontà dei tarantini – non chiudere l’Ilva, ma monitorare sulla sua ambientalizzazione – è emersa chiaramente, in modo schiacciante, confinando le opzioni più estremistiche nel recinto del minoritarismo. Addirittura, le percentuali più basse di partecipazione si sono registrate nei quartieri a ridosso del Siderurgico, quelli più colpiti dai problemi dell’inquinamento. Adesso però non bisogna buttare via il bambino con l’acqua sporca. Ci sono questioni, come abbiamo detto, che devono essere strappate il prima possibile dal verbo incauto dell’ambientalqualunquismo e riportare urgentemente al centro del dibattito non solo tarantino, ma nazionale: come affrontare i problemi ambientali e sanitari, come superare la monocoltura dell’acciaio – oggettivamente insostenibile nel 2013 – ma anche come riportare fiducia e speranza in una comunità, cittadina e industriale, al centro di una vicenda che lascia Taranto con le ossa ammaccate e il blasone sgualcito.
Gli operai Ilva possono finalmente dormire sonni tranquilli, il futuro industriale tarantino non è compromesso, ma certamente questa posizione per così dire di retroguardia non è sufficiente. Solo che in questi mesi è emerso il vero drammatico deficit tarantino: pur in presenza di insediamenti industriali strategici, Taranto è una città acefala, priva di una vera classe dirigente, a partire da quella politica – istituzioni locali assenti, borghesia trainata da un ambientalismo chiacchierone e drammaturgico – fino ad arrivare a quella imprenditoriale, tanto che sinora non è emerso un solo valido progetto di rilancio competitivo del territorio tarantino che non fosse la vacua riproposizione del binomio agricoltura-turismo.
Sono mesi che, in orgogliosa quasi solitudine, ho sostenuto temi che – mi dispiace che questo appaia come un atto di arroganza, ma è così – uno alla volta hanno dimostrato la loro validità. La mia polemica dura e diretta con gli ambiental-qualunquisti, che mi è costata insulti e accuse di ogni genere ben al di là dell’infamia, aveva come unico obiettivo quello di evitare che temi legittimi e urgenti venissero monopolizzati da chi non aveva idee e strumenti per risolverli. La mia polemica contro la “città smemorata”, che dimenticava il sacrificio della generazione dei padri per dare un futuro diverso ai propri figli attraverso l’acciaio, non era pretestuosa, ma rispettosa verso un passato che non può essere dimenticato o gettato nel cestino da qualche ecologista da salotto. La mia difesa dell’azione di Clini, del tutto disinteressata, era motivata unicamente dalla disperata difesa delle ragioni della storia di una città di industria. Adesso che il doppio ceffone costituzionale e referendario dovrebbe aver fatto comprendere a molti la vacuità e il minoritarismo delle proprie posizioni, spero che tutti i tarantini di buona volontà, compresi quelli che hanno scelto o sono stati costretti a emigrare, facciano fattor comune per garantire un futuro alla propria madrepatria. Fin quando rimarrà questo gigantesco “vuoto di élite”, la partita tarantina si gioca nel dramma di una città che ha scelto di non morire ma non sa ancora come sopravvivere.
@AngeloMellone