“Dalla terra nasce l’acqua, dall’acqua nasce l’anima… È fiume, è mare, è lago, stagno, ghiaccio e altro ancora… È dolce, salata, salmastra, è luogo presso cui ci si ferma e su cui ci si viaggia, è piacere e paura, nemica ed amica, è confine ed infinito, è cambiamento e immutabilità, ricordo ed oblio.”
Così “l’oscuro” Eraclito in uno dei cento frammenti che attraversano la sua opera. Il principio acquatico di ogni fiato è origine di luoghi sacri e simbologie divine. L’acqua, il nuovo “oro nero” è sorgente di vita e cagione di morte. L’ “Archè”, elemento primordiale iniziatico di tutte le cose: all’acqua torna tutto quello che è apparso. Costituente vitale che, nel principio di offrire la vita, si consuma il potere di toglierla. Archetipo junghiano è il simbolo più fluido dell’inconscio. Allestimento caro a tanta letteratura, e fregio poderoso di molti fotogrammi.
Per Giovanni Verga de “I Malvoglia” è nutrimento vitale e movente di morte. La “Provvidenza”, un’estensione acquatica del focolare domestico, rinnega il suo nome davanti a quello specchio sconfinato che dona nel trattenere. Per Baudelaire, un fiore del mare che scandaglia gli abissi in “L’homme et la mer”. Da Céline giunge un intricato scandaletto marino con Venere, Nettuno e la sirena. Una zampillante ammaliatrice, che nuotando arriva sino ai giorni nostri nella canzone di Capossela: Pryntyl. Il mare, afflato creativo di poesia, romanzo e musica per alcuni. Baratro oscuro per altri. Buio, definitivo e letale è il fiume che inghiotte Jeff Buckley. Una bellissima figura maschile, gentile cantore musicale, discende dalla riva del Wolf River e sulle note canticchiate di un inno all’amore, “Whole lotta love” dei Led Zeppelin, annega nel Mississippi. I suoi testi suonano un conflitto tra il malessere esistenziale e il calore del sogno. Il leader degli U2, Bono Vox, lo racconta in una metafora acquatica: “una pura goccia di suono in un oceano di rumore”.
La leggenda narra di una libreria alla fine del mondo. Internamente, ogni opera si fregia di un custode. Jeff, in jeans neri, t-shirt bianca e stivali Dr Martens, è preposto all’accurata protezione delle pagine di Marco Ciriello, l’autore di “Pace alle acque”. Un piccolo grande libro che lo scrittore dedica al cantante: un meraviglioso e doloroso poema acquatico. Una scrittura in prosa si confonde nella poesia, preparando il varo a un’alchimia letteraria. Sopravviene una terza forma: il linguaggio parlato nei fondali marini. Una parola che si fa corporea, sino a imprimersi come un tatuaggio difettoso sulla pelle del lettore. L’ invito a portarsi indosso l’emozione, in un dardo gocciolante che trafigge senza indugio. Buckley è il suono dello scrittore che è la voce degli annegati.
Il mare di Ciriello è una creatura angosciante, imperscrutabile e senza Dio. Nessuna possibilità di salvezza, in una sorta di girone infernale dove i condannati possono solo osservarsi nella loro immobilità. Condizione immutabile che signoreggia sul corpo, riservando alla mente il castigo forzato di un ricordo ininterrotto. Una memoria veloce e spietata. Non esiste scandaglio alcuno, in grado di misurare la profondità delle acque che li ha inghiottiti e mai più restituiti. La loro salvezza è temporanea, si consuma in un istante che diviene eterno nei ricercati versi dell’autore. Un attimo di tregua: raccontare la storia per poi tornare nell’oblio acquatico. Creature, che cedendo a un impulso definitivo, sono cadute nell’eccesso: smoderatamente donne e scostumatamente uomini. Così il loro peccato. Eccedenze trasfigurate in condanne di morte.
“non fui madre e non seppi esser figlia, vengo a dirlo a chi è in tempo. di pesci e acqua e buoi non ne posso più, mai desiderai tanto una candela e luce forte che qui manca, come dissi e ora ripeto. salvami o ascolta, legami alla corda, tirami su se hai forza, ma niente indifferenza, stanca di prigione e puzza di stiva e topi correre su piedi nudi che mai avevano visto tanto fango, punizione eccessiva per una ballerina di tango.”
Lei è Mrs Molly Stanfort e tale la sua preghiera: l’autore sottoscrive, solleva e inoltra. La supplica di una donna che domanda a una santa di lenire la pena, di farla pietra senza ricordi e sofferenze. E ancora la galleria dannata di un’umanità peccatrice o disgraziata, tormentata dal mare alla maniera di un crudele grillo parlante nella testa: il dolore è dilatato dall’oscurità delle acque.
Smarriti in un’atmosfera sofferente, la crepa dalla quale arriva l’aria a ossigenare il lettore è nella compassione e nell’indulgenza. Il giudizio resta sospeso nella consapevolezza di un riconoscimento umano ipotetico o acclarato: l’altro è in me. Accade nella libreria alla fine del mondo che arrivi un giradischi, e un vinile suoni le note profetiche di “Grace”. Succede a un libro di rotolare giù dagli scaffali e realizzarsi in una lettura tutta di un fiato che lascia senza. Un poema acquatico che si fa blu, il colore degli abissi.