
Pubblichiamo un estratto di “Dafne” di Alfred de Vigny, opera postuma pubblicata il 16 novembre 1913 sulla “Nuova Antologia”, ora edita da Ar
“Fino a quando decisi di attraversare Antiochia, ero rimasto chiuso in casa con i nostri fratelli e non ero neppure salito sulla terrazza per osservare la situazione attuale della città. Ma, come ti scrivo, il sesto giorno intuii, dalle urla che udii e dallo strepito di corni e di trombe eccheggianti in lontananza, che all’esterno si stava diffondendo un’agitazione eccezionale. Salimmo tutti sulla terrazza da dove scorgemmo l’intera città stesa nell’ombra sotto di noi; a oriente le sabbie, a occidente la linea azzurra del mare e, davanti a noi, spiccava nella polvere della pianura, come un’isola lussureggiante di palme, cedri, cipressi e allori, il rifugio di Dafne, dov’ero atteso.
Antiochia era sempre più in subbuglio. Questa città irrequieta era in preda a un eccesso di ebbrezza beffarda che non riuscivo a spiegarmi. Le strade erano invase da una gran folla di uomini che cantavano e correvano tenendo per mano donne senza velo, che il nuovo culto ha liberato dalla reclusione severa del gineceo. Le cristiane sfrontate di Antiochia guardano gli uomini con tale sfacciataggine da indurli ad abbassare gli occhi. Un certo numero di abitazioni erano ancora chiuse, quelle delle antiche famiglie rimaste fedeli alla prima idolatria che adesso si chiama ellenismo. Ma quelle case erano rare e sulle loro terrazze si scorgeva solo qualche uomo. Le donne mostravano solamente il capo, i veli e gli occhi dietro le grate.
Dalle campagne vedevamo tornare, a gruppi di cento o duecento, giovani che indossavano vesti nere strette in vita da una corda. Le donne nazarene andavano loro incontro e all’udirne i racconti erano colte da un grande spavento. Quegli uomini sembravano irritati e, come avessero voluto vendicarsi di un affronto subito da poco, li vidi raccogliere, sotto la nostra terrazza, delle pietre e servirsene per fare a pezzi una statua di Vesta collocata accanto alla porta di una casetta ellenica. Il proprietario della casa si limitò a chiudere le finestre e a far togliere dalla terrazza una statua di Mercurio. Il nostro fratello Simeone di Gad m’informò che quegli uomini avevano appena perlustrato la campagna nei pressi di Antiochia, come non smettono di fare ogni giorno per costringere i villici a distruggere le statue dei loro dèi, ma per raggiungere il loro scopo devono lottare aspramente. I villaggi non cedono su questo punto tanto presto quanto le città, e i loro abitanti, che non sono deboli come quelli delle città, uccidono, a colpi di balestra e di picca, i nazareni che vogliono demolire i loro tempietti e difendono i loro dèi di legno meglio di quanto facciano i ricchi con i loro dèi di marmo e d’oro. Stavolta i nazareni dalla veste nera sono stati ricacciati all’interno di Antiochia più energicamente del solito, grazie allo sbarco inatteso di un corpo d’armata dell’imperatore, forte di non meno di settantamila uomini. Quei cristiani, perciò, si vendicavano sulla città, dove la fanno da padroni, e in mezzo a un gruppo di quei compari attorniati da molte donne del popolo, vidi un giovane furente salire su un masso e arringare la folla per più di un’ora, profferendo imprecazioni che sembravano rivolte all’imperatore, poiché indicava l’oriente, dove si potevano scorgere i preparativi dell’accampamento romano che il giovane principe fa sempre porre alla maniera di Giulio Cesare. Gli abitanti di Antiochia hanno un gusto vivissimo per i discorsi prolissi e i preti rimproverano loro di ricercare solo quelli nei templi, non la preghiera. Dopo il discorso tenuto al nostro cospetto da quel novello oratore, il popolo proruppe in grida di gioia e raccattò qualche pietra per precipitarsi a compiere un’altra distruzione verso cui lo guidarono i giovani nazareni nerovestiti. Il nostro fratello Simeone di Gad, a cui chiesi il nome di quegli strani personaggi, mi disse, accennando a un sorriso che non riuscì a trattenere nonostante la consueta serietà di linguaggio, che quegli uomini che correvano in massa e vivevano in folti gruppi si chiamavano da qualche anno solitari o monaci. A me ciò non è parso sorprendente, dal momento che vedo diffondersi a poco a poco, in tutto l’Impero, l’usanza di chiamare paesani, nella lingua di Roma, tutti gli adoratori degli dèi, a qualsiasi ceto sociale essi appartengano, a causa della resistenza ostinata degli abitanti dei villaggi, i pagani”.
*Dafne. Romanzo filosofico sull’imperatore Giuliano di Alfred de Vigny (Edizioni di Ar, pp. 108, euro 13; per ordini: info@libreriaar.com)