Il 23 ottobre di cento anni fa Filippo Corridoni, giovane sindacalista rivoluzionario, già affermato agitatore politico, interventista, cadeva eroicamente all’età di 28 anni, dopo pochi mesi dall’entrata in guerra dell’Italia, nella cosiddetta «Trincea delle Frasche», nei pressi di San Martino del Carso. Il giovane soldato guidava un drappello di commilitoni cantando l’inno di Oberdan, avvicinandosi alle postazioni austriache. La sua «leggenda» fiorì immediatamente.
Il fascismo ne fece un precursore della «rivoluzione nazionale». Mussolini, che gli era stato amico e con lui aveva condiviso le battaglie sindacaliste e interventiste, s’impegnò personalmente nella costruzione del «mito». La città natale, Pausula, nelle Marche, prese il nome di Corridonia; un monumento venne eretto a Parma, teatro di alcune delle sue più significative «gesta» rivoluzionarie; in tutti i borghi e le città italiane gli venne dedicata una strada.
Come si conviene quando si tratta di un martire che è stato pure un precoce ideologo, oltre che attivissimo militante, nel rievocarne la figura generalmente si è più portati ad enfatizzarne il sacrificio piuttosto che a scandagliarne il pensiero. È questo il destino toccato a Corridoni la cui elaborazione culturale all’interno del movimento rivoluzionario social-sindacalista è restata sullo sfondo della sua azione lasciando incompresa la portata innovatrice della sua concezione «sovversiva» agli inizi del Novecento. La maggior parte degli scritti a lui dedicati tra le due guerre hanno infatti avuto quasi esclusivamente intenti apologetici. È indubitabile che questa «limitazione» abbia nuociuto alla diffusione delle idee corridoniane. Tuttavia, pur attribuendo all’immatura morte la ragione principale della notorietà di Corridoni, non è detto che essa non la si possa considerare come il punto più alto e conclusivo della sua stessa militanza rivoluzionaria e inquadrarla, pertanto, al di là delle oggettive valenze umane, come la «materializzazione» di una parola e di un pensiero coerenti con un’azione complessivamente dispiegata in funzione dell’affermazione di una visione del mondo e della vita che prevedeva anche il sacrificio supremo.
La morte di Corridoni, quindi, ha tutto il senso di un «sacrificio liberatorio» sotto due aspetti: la rivendicazione dell’indipendenza nazionale e l’affermazione dello «spirito nuovo» che muoveva i rivoltosi degli anni Dieci del Ventesimo secolo reclamanti nuove solidarietà in vista del «bene comune» della nazione che pretendevano finalmente sottratta, anche moralmente, all’egemonia della borghesia che aveva fatto il Risorgimento.
Il corpus dottrinario corridoniano è tutt’altro che povero, oltretutto derivato dalla «lezione» di Georges Sorel, riferimento primario di tutti i sindacalisti rivoluzionari. Ecco perché aver legato la sua fama quasi esclusivamente all’impegno interventista e all’episodio bellico che lo vide tragicamente protagonista, sembra un’ingiustizia. Così come è ingiusto ritenere che l’aver trovato la morte in giovane età non abbia permesso a Corridoni di esprimere compiutamente una coerente concezione del sindacalismo che, caratterizzato da una perfetta adesione tra teoria e prassi rivoluzionaria, per quanto fosse acceso, passionale, romantico non si nutriva dunque soltanto di apriorismi filosofici, né di mera attività «sobillatoria». Esso era piuttosto il risultato della contemperanza tra l’elemento volontaristico-spirituale, mutuato dalla lettura precoce di alcuni testi di Friedrich Nietzsche, e delle ragioni materiali del proletariato italiano su cui si era a lungo esercitato frequentando la scolastica marxista. Da qui il suo tentativo di elevare le categorie lavoratrici attraverso il cosiddetto «sindacato di mestiere», fino a portarle al diritto di cittadinanza nel governo della produzione economica. Dunque, il sindacalismo di Corridoni, segnato da un processo formativo assai fecondo, teso a «spiritualizzare» e a «nazionalizzare» il proletariato italiano, lo si può definire «eroico» e come tale avente una particolare connotazione rispetto alle altre tendenze del sindacalismo del tempo ed in specie di quelle proprie del sindacalismo rivoluzionario nel cui alveo la dottrina corridoniana s’innesta.
Corridoni e Mussolini, che ritenevano la guerra l’occasione rivoluzionaria per eccellenza, nel maggio 1915 infiammarono Milano con riunioni e comizi. Il giovane «sovversivo» si arruolò volontario, insieme con altri compagni di lotta. Dopo un breve noviziato in trincea arrivò all’appuntamento con la morte. Il suo corpo non fu mai ritrovato. (da Il Tempo)