Pubblichiamo la postfazione di Marco Cimmino all’ultimo libro di Gabriele Marconi, un poema che partendo dalle suggestioni di “The Waste Land” di Eliot, tocca i tasti dolenti della modernità in cui siamo immersi.
Perché la poesia? Il clangore ritmico dell’esistenza, l’isteria del domani senza l’oggi, sembrerebbe negare la poesia. Abbiamo trascorso un’epoca intera a innalzare cattedrali all’antipoema: ci siamo azzuffati con i nostri dei, trasformandoli in ciarlatani e carradori.
Dunque, perché mai tornare a cantare? Stride ferocemente l’unghia della poesia sulla parete vitrea della presente miseria; richiama ad un mondo in cui sognare era creare: un mondo di cui oggi ci vergogniamo e che, forse, si vergognerebbe di noi. Invece, da
una sorta di paiolo ribollente, tra i fumi e i gorgoglii di innominabili ingredienti, è scaturita questa poesia.
Dico meglio: queste schegge di poesia, giacché la loro stessa essenza è nascere da fratture infinite, inscatolate una dentro l’altra, come matrioske mutilate.
C’è voluta una vita intera per tracciare questi solchi: perché questa poesia ripercorre una vita intera, a ritroso, a casaccio, rabdomanticamente e mescolando il bene e il male, nel caleidoscopio della memoria intermittente.
La poesia ha un potere immenso: divide e riunisce, ordina e scompone le tessere del domino. Dunque, la Savana del Midwest si confonde con l’Africa dei romanzi d’avventura, che è il quartiere Montesacro o il semplice sentimento di Montesacro, la cognizione di Roma, più che Roma stessa.
E le fonti: certo, le fonti. Ordinatamente, disciplinatamente, bisognerebbe metterle in riga, queste fonti, da Pound a Corto Maltese, da Borges a Snorri, da Stephen King passando per Eliot. Ma sarebbe come pretendere le fonti dal canto degli uccelli: troppo facile indicare fonti che sono già indicate, citare citazioni già citate. Io non sono qui per questo. Semmai, sacerdote di un culto remoto, posso indicarvi la
via per navigare tra queste falesie: la poesia vi raggiunge, inaspettata, certe volte molesta. Non le potete sfuggire. È l’anima delle cose perdute, il profumo
di un’alba nuova di zecca: la poesia vi tallona, vi segue dietro gli angoli della vita.
Avevate bisogno di questa poesia: ve ne siete resi conto solo adesso, dopo averla incontrata. La meraviglia increduta.
Adesso, provate a percorrerne la scia fosforescente: senza domandarvi il senso, senza dipendere da una direzione. Vi ritroverete in un universo cangiante, pieno di mistero e di sorpresa: la poesia, di tanto in tanto, illuminerà il vostro sentiero, come di
lampi color cobalto, abbastanza perché possiate riconoscere le traverse, quel tanto da poter leggere il nome su di un tumulo. Il resto dipende da voi: la poesia non vuole educare, non pretende di spiegare, ma vi lascia liberi. Liberi, capite? Non dovete giustificare il suono delle vostre parole, né quello dei vostri passi: siete liberi.
Così vive, forse, il senso ultimo di questa poesia: un canto di libertà e di nostalgia. Come uno spettro o come un lanzo senza ingaggio, il poeta si aggira per il vostro universo, inciampando in voi, come per caso: reduce di tutte le guerre, amante di tutti
i lenzuoli. E, per un miracolo che soltanto la poesia giustifica e perdona, voi siete lui: siete sempre stati lui, in realtà. È come se vi avesse sempre conosciuto, ora che le sue parole sono le vostre e che i suoi occhi guardano per voi.
Io l’ho conosciuto meglio di chiunque altro, e ne conosco la fragilità e il potere, ne condivido l’ilare solitudine. E vi dico che questa poesia è per voi come per me il profumo del gelsomino, e la risacca nel buio dell’orizzonte: che io e voi siamo uguali, di fronte a questa poesia, perché essa parla a ciò che di noi è materia comune, e che durerà oltre la nostra vita stessa. E questo noi lo chiamiamo, con parola acerba
ed inadeguata, tradizione: che è idea di baratto e di passaggio, di radio che trasmette in un oceano fragoroso segnali che una sola crociera potrà intercettare.
In verità, la tradizione è altro: è la memoria di cose che si credono dimenticate, e che affiorano come bolle nella fredda oscurità del pozzo. È un comando imperioso, che ti richiama al tuo retaggio: è quel senso inspiegato di amore che ti lega alla tua gente, ai
tuoi consanguinei. Nemica del tradimento e del calcolo, la tradizione vive nella poesia, perché ne condivide la materia primigenia, il magma rovente da cui vennero plasmate le genti antiche. Così, il vostro primo passo dentro questa poesia abbia il nome terribile di eternità: poiché per l’uomo è eterno quanto dura come l’uomo stesso; e non vi è vincolo più forte di quello che ti lega al sortilegio dell’amore.
La realtà è invadente e oscilla, translucida, nell’afa del mezzogiorno, si riflette monotona nelle brevi pozze scure sull’asfalto: non si sfugge alla realtà,
né fuggire è cosa commendevole. La realtà si affronta
e si combatte, e si cambia, dipingendola dei nostri colori e riempiendola del suono metallico delle nostre gesta: in questa poesia c’è della guerra, lettori, e si combatte strada per strada. Come in un sogno lontano, che per qualcuno è semplicemente ricordo. La battaglia odora di spazzatura e di sangue: la gola è secca e i capelli sono incollati in ciocche polverose.
La poesia è l’acqua della tua borraccia, il bacio tiepido della fatica.
Molti, antichi, precedenti, ci hanno insegnato a combattere: qualcuno con la spada qualcuno con lo sguardo. In questa poesia c’è un vasto cenobio, dalle ombre rinfrescanti, percorso da figure silenziose e veloci: in questa poesia c’è la vita fragorosa della strada e della marina. E ci sono parole che non dovrebbero essere pronunciate a cuor leggero, così come ci sono scherzi che scoppiettano come petardi, nella notte di novilunio.
La realtà è solenne e sguaiata, prostituta e regina insieme: c’è abbastanza vita in questa poesia da riempire cento vite. Eppure c’è ancora spazio per un peana, e per un cachinno e per la vostra salmodia silenziosa: entrate, dunque, anche nella realtà di questa poesia, per essere insieme archetipo e novità. Questa è la nuova guerra: abbandonare il segno dei tempi, afferrare il mito e riforgiarlo, per nuove mani, per ulteriori battaglie. Ed è stanchezza, dove la poesia si posa: è il sonno di pietra dopo la lunghissima fatica.
Sulle vostre palpebre, lettori, scenderà un sonno profondissimo e violaceo: capirete, allora, che la realtà lascia le sue impronte di fiamma sulla roccia, e che le rughe del poeta sono cicatrici. E più ancora sentirete quanto bisogno c’era di questa poesia: la sua necessità stringente. Perché solo un onesto riposo vi restituirà al mondo risanati: solo dopo aver molto operato è lecito rifiatare. Avrete, allora, mani compassionevoli di donna, e molti e variopinti fiori, e musiche suadenti, e danze e vino forte da bere d’un fiato. E anche voi, se la dea vi sarà propizia, scriverete poesie. Così, il vostro secondo passo dentro questa poesia abbia il nome severo di quotidianità: poiché per l’uomo nulla è più difficile che accettare di aver perso il paradiso e doverlo ritrovare, senza più ali per volare.
La morte, infine: infine, la morte. Questa poesia ne è piena, anche se, talvolta, di una morte festevole si tratta. Tutto muore, sembra dirci il poeta: perfino nelle pupille dei vivi, io vedo trascorrere mille morti. Poiché dalla morte veniamo e dietro di noi morte lasciamo. Le morte mani di amiche delicate: i loro capelli diventati radici filamentose, nella terra affamata. Le forti braccia e i denti come di belva degli amici caduti: il suono scintillante delle loro risate, chiama la morte, come un canto di sirene. Perfino i luoghi, i suoni senza corpo delle estati passate, le seggiole scompagnate, i cani giostranti nel saluto del ritorno, parlano una lingua che è morte.
Questa poesia canta la morte, venuta di lontano: la morte che non si stanca, che non sorride, che non dorme. E le ride sul volto scheletrito: perché qualcosa del poeta va oltre la gloria, oltre la stanchezza e la morte. E siete voi, lettori. Non cercate altrove il senso ultimo dell’umanità: siete voi quel senso, perché in voi la scintilla rimane.
La poesia, ormai, vi ha segnato: non le potete più sfuggire: già la morte degli altri, la morte di tutti, è la vostra morte. Avete già cominciato ad essere poeti, vostro malgrado. Perché la poesia è l’unica malattia che, invece di uccidere, contagia di immortalità: vince la morte. Le parole sono solo parole, ma nella poesia diventano fiori e frecce, petali d’acciaio: è vero, questa poesia è piena di morte. Ma questa morte è vita, perché vive in queste parole il nome di uomini e cose che da tanto non ci sono più. E le parole sono le cose: danno vita alle cose, nominandole.
Non siate, dunque, tristi, per tutta la morte che avete respirato: anche la morte, come tutto, è un sogno. Torneranno i canti intorno al fuoco, e gli amici perduti usciranno dalla tenebra e si siederanno a cantare: e sarà come se non fossero mai partiti, come se il buio fosse solamente una luce nera. Questo vi vuole dire la poesia: non disperate, non dimenticate, non abbandonate.
Così, il vostro terzo passo dentro questa poesia abbia il nome giocondo di rinascita: poiché per l’uomo nulla è più bello che respirare con tutta l’anima la fragranza di una gioia nuova. E voi, lettori, l’avete appena fatto.
*Gabriele Marconi. “Ritorno alla Terra desolata”. Idrovolante edizioni.