“Cosa succede quando un’opera giapponese vuole affrontare la storia occidentale […]?” (p. 9), questa è la stimolante premessa che sta alla base della originale monografia firmata dal giovane studioso Luca Paolo Bruno. Da Alessandro Magno a Gesù di Nazareth, da Giovanna d’Arco a Cesare Borgia, da Napoleone a Billy the Kid. L’esplorazione degli stilemi narrativi giapponesi nella rappresentazione di personaggi, luoghi e ambientazioni appartenenti alla cultura occidentale racchiude una miriade di informazioni.
Nella prima parte del testo incontriamo un graditissimo omaggio, per noi che amiamo seguire la yamatologia ricordandone i “padri” nobili, piuttosto che gli attuali “figli” le cui qualità non brillano sempre in modo cristallino, a Lafcadio Hearn (1850 – 1904): “figlio adottivo” dell’Arcipelago (p. 11); il quale da straniero divenne “più giapponese dei giapponesi”, in un momento in cui il Paese stava invece ricercando, non sempre però a ragione, la modernità. Oltre al riferimento allo studioso di origine greco-irlandese, notiamo, nelle fonti citate dall’autore, anche il nome di Mircea Eliade, il cui pensiero, prima della sua “conversione” alla contemporaneità, si inseriva nella corrente dei cosiddetti studi tradizionali. Tutto ciò ci solleva parzialmente l’animo, giacché si capisce come Bruno si distanzi almeno in parte dalla odierna e dominante visione in chiave americana del Paese del Sol Levante. A tal proposito, molti nostri colleghi forse purtroppo dimenticano – talvolta persino ignorano – l’infelice frase di Douglas MacArthur: “I giapponesi hanno l’età mentale di dodici anni”. Il generale americano, chiamato nell’Arcipelago Gaijin Shōgun (“Shōgun Straniero”), per ben sei anni ebbe in mano le sorti del Giappone, dettandone attraverso il suo staff quella Costituzione che proprio di recente il premier Abe Shinzō sta mettendo in discussione. Viene da chiederci: ancora oggi guardiamo al Giappone con queste sciagurate “premesse moderne”? Praticamente agli antipodi da quel tentativo di mediazione colta e religiosa portata avanti dai gesuiti, alcuni dei quali italiani (Alessandro Valignano, 1539 – 1606), secoli fa. Nel saggio di Bruno fortunatamente non solo vengono smentite le parole di MacArthur, ma si dimostra inoltre quanto il popolo nipponico abbia guardato alla nostra storia con un rispetto il più delle volte superiore a quello da noi dimostrato verso la loro: troppo lunga sarebbe in questa sede una digressione sui documentari razzisti americani di propaganda durante la II Guerra Mondiale.
Tornando al testo, riteniamo che l’aspetto più significativo di Occidente giapponese sia l’indagare quel suggestivo fenomeno che è l’esotismo al contrario: “[..] molti autori giapponesi ricorrono a un setting occidentale per raccontare una storia dai caratteri squisitamente giapponesi ma attraverso luoghi, usi e costumi stranieri” (p. 76). Generalmente, la narrazione di personaggi storici occidentali nella narrativa a fumetti dell’Arcipelago si fa risalire al manga Versailles no bara (“Lady Oscar”, 1972 – 1973) di Ikeda Riyoko; dopo il quale le visioni di un Occidente affascinante e romantico si sono moltiplicate. Possiamo perciò affermare che il cosiddetto “Occidente Giapponese” di cui parla l’autore cominci principalmente a svilupparsi a partire da questo fumetto e dalla successiva, e fortunatissima, omonima serie televisiva. Tuttavia, opere di questo genere si caratterizzano per essere per l’appunto di “setting”. Ovvero, storicamente poco attendibili, giacché essenzialmente concentrate sulla narrazione della vita dei protagonisti, piuttosto che su una fedele ricostruzione dell’ambientazione: un caso recente è quello di Thermae Romae (2008 – 2013) di Yamazaki Mari, un fumetto dove la Roma Imperiale non è proprio quella che siamo abituati a conoscere noi che ne siamo i diretti discendenti. Altre volte ci troviamo, per converso, davanti a opere assai precise e dettagliate, le quali mirano a rendere noto un determinato momento della storia occidentale: “La cura profusa nella ricerca storica e nella scelta delle fonti in queste opere, [..], ne fanno talvolta dei veri e propri testi divulgativi” (p. 75).
Un ulteriore elemento di questo libro che va elogiato è la reiterazione di un concetto cardine: “L’eroe non è mai singolo, né tantomeno è da solo” (p. 55), visto che egli è immancabilmente l’espressione di un gruppo. Questa è la caratteristica principale del popolo giapponese, che trascende la sfera dei manga e anime. Precisamente, quello nipponico è un eroe di gruppo, a differenza di quello occidentale: “[…] l’eroe moderno giapponese è la summa della sua patria, della sua famiglia, del suo gruppo di riferimento […]” (p. 55). Potremmo addirittura spingerci oltre, affermando che esso è visto in Giappone quale simbolo di armonia, associato come idea al kanji “和”. Ragion per cui, le differenti rappresentazioni dell’eroe in Giappone e in Occidente rivelano molto dell’animo più profondo di queste civiltà e delle loro non sempre conciliabili diversità, le quali meriterebbero maggiore attenzione, visto che un personaggio storico occidentale perde, proprio in virtù delle sopracitate differenze, alcune sue caratteristiche quando rivisitato da un autore nipponico, poiché passa per: “[..] un adattamento del personaggio occidentale alle strutture narrative giapponesi […], ma è anche di uno spostamento in chiave propriamente giapponese della prospettiva di analisi del carattere di quel personaggio e delle vicende in cui esso è inserito” (p. 137).
In Occidente giapponese si concede talora uno spazio eccessivo a dati essenzialmente storici, una tendenza tipica dell’Accademia nostrana, dove sovente l’analisi viene messa in secondo piano. È comunque vero che alla fine ciò può risultare assai utile per quel lettore non specializzato, bisognoso di informazioni basilari sul Giappone e la sua cultura. Certo, ciò fa pensare che il testo nasca come una tesi di laurea, seppur in questo caso si tratterebbe di un “percorso” decisamente usuale per un giovane studioso, come in questo caso.
![La copetina di "Occidente giapponese"](https://www.barbadillo.it/wp-content/uploads/2015/09/Occidente-giapponese-Copertina-310x440.jpg)
Meno appropriata è la scelta da parte di Bruno di non prendere in considerazione altri testi specialistici pubblicati nel nostro Paese. Sia chiaro, da anni stigmatizziamo la crisi di idee di alcuni settori della orientalistica italiana. Ciononostante, poche buone cose sono state pur sempre scritte e sarebbe stato giusto confrontarvisi, anche solo per criticarle. Qui si individua in parte la comprensibile poca esperienza di uno studioso giovane, ma con delle idee di sicuro interesse. In poche parole, se si prende la decisione, per molti versi persino condivisibile, di non analizzare la letteratura di settore in lingua italiana, allora sarebbe il caso di spiegarne le ragioni.
* Il carattere in questione ha la seguente lettura on-yomi: “Wa”, dal cinese: “Hé”. Il significato di base è solitamente “armonia”, ma tale kanji viene spesso utilizzato anche per indicare lo stesso Giappone, pensiamo alla celeberrima parola “Yamato”: (大和, letteralmente “Grande Armonia”).
* Occidente giapponese di Luca Paolo Bruno (pp. 152, Società Editrice La Torre, 2015)