Le critiche rivolte alla destra italiana da Ernesto Galli della Loggia sul “Corriere della Sera” del 15 settembre meritano rispetto. Lo meritano perché non sono dettate da preconcetta ostilità, ma da qualcosa di molto simile a un eccesso d’amore. Non per la destra odierna, quella degli orfani di Berlusconi desiderosi magari di farsi adottare da Matteo Salvini, ma per un patrimonio di valori, fatto di senso dello Stato, di rispetto per la tradizione, di serietà negli studi, di tutela dell’interesse generale anche a dispetto degli egoismi settoriali, in cui è difficile non riconoscersi.
In questo atteggiamento, che ricorda un po’ quello di Montanelli con le sue nostalgie per una destra storica idealizzata forse più del dovuto, Galli della Loggia non manca di coerenza. A parte gli anni della contestazione, vissuti, paradossalmente, in quel tempio del liberismo che era la Fondazione Einaudi, questo allievo di Ernesto Rossi e di Leo Valiani ha svolto una meritoria opera revisionistica all’interno della sinistra con l’effimera ma intensa esperienza di “Pagina”, fondata nel 1984 in collaborazione con due grandi outsider come Massimo Fini e Giampiero Mughini, oltre che con Paolo Mieli. Sono venute poi la collaborazione al “Corriere”, la direzione di “Liberal” e molti interventi destinati a suscitare un ampio dibattito, con l’identificazione dell’8 settembre con la “morte della Patria” (espressione già fatta propria dal giurista Satta, ma che Galli della Loggia portò al centro del confronto storiografico), le critiche al clima che ha ispirato le commemorazioni della grande guerra, ridotta a “ una sorta di impazzimento collettivo o di sinistro complotto di un manipolo di burattinai malvagi”, le obiezioni mosse ai “democratismi distruttivi” nel sistema educativo o, alcuni anni fa, ai nuovi programmi di storia, con la loro “mescolanza di braudelismo e di marxismo” (e dire che Braudel, in vita, fu osteggiato dai marxisti, perché la “lunga durata” aveva poco a che fare con la lotta di classe…).
Ci può essere, nel suo constatare “le difficoltà che incontrano nel nostro Paese un’antropologia e una cultura politica conservatrici”, una virgola di snobismo (naturalmente, snobismo liberale, o “liberal”), una forma di complesso di superiorità. Ma il catalogo di valori che ci propone, la sua “nostalgia di un’Italia diversa” ricordano da vicino, sia pure in un contesto ovviamente diverso, il Manifesto dei conservatori che Prezzolini pubblicò nel 1971 sulla rivista “La Destra” e che poi è stato pubblicato e ripubblicato anche di recente in volume.
Ciò premesso, resta un fatto. Ernesto Galli della Loggia è uno storico, non un politico. E la politica, che, piaccia o meno, è l’arte del possibile, si fa partendo dalla realtà effettuale e utilizzando, eventualmente plasmando, il materiale umano disponibile. Le critiche, di natura estetica ancor prima che etica, ed etica ancor prima che politica, che Galli della Loggia muove alla classe dirigente del centro-destra possono essere condivisibili. Ma, se l’antropologia della società italiana è quella che è, la sua classe dirigente non potrà che adeguarvisi e rispecchiarla. Non è detto che il cane assomigli sempre al padrone: spesso avviene il contrario.