C’è chi pensa che possa essere una edizione riveduta e corretta del “che fai, mi cacci?” che sancì il drammatico divorzio tra Fini e Berlusconi. In verità è difficile che possa andare così tra Pier Luigi Bersani e Matteo Renzi. È vero, i due gruppi si odiano: chi pratica le segreterie democrat sa bene come si tratti di un astio dal sapore medievale, di pelle. Bastava girare nei gazebo al tempo delle primarie, ad esempio, per accorgersi di come la caccia al “renziano” fosse lo sport preferito degli addetti ai seggi (quasi tutti di ferreo rito bersaniano). Stesso discorso nelle dichiarazioni dei “rottamatori” ispirati al sindaco di Firenze nei confronti di giovani turchi e protesi varie degli ex Ds.
Ed è anche vero che alcuni ingredienti “ideologici” ci sarebbero pure per parlare di una scissione: socialdemocrazia del correntone contro ventata liberal del rottamatore; ritualità (le direzioni che durano sei-sette ore) del partito forte contro la smartphone-mania che sembra il vero codice politico dei renziani. E che dire, poi, della cosiddetta “macchina del fango”? Basta prendere la prima pagina de l’Unità con quel «No di Renzi al governo Bersani» per capire come l’eventualità che nel Pd vivono due partiti diversi, più che gruppi in competizione, non sia così peregrina. Mettiamo, infine, i sondaggi che umiliano la classe dirigente vicina al segretario (“con Renzi il Pd vince”), l’apparizione nazionalpopolare da Maria De Filippi nelle reti Mediaset del Caimano e il quadro del “marziano” venuto per dissacrare la storia di quello che fu il Pci sarebbe completo.
Ma nonostante questo Renzi non verrà cacciato dal Pd né se ne andrà da solo. Prima di tutto perché il Pd – con tutti i suoi limiti – è un partito vero. E Bersani non è un monarca ma un segretario regolarmente eletto così come Renzi è il “legittimo” sfidante. I vincitori delle primarie interne, di conseguenza, hanno sancito che quella dei “renziani” è una minoranza che pone dei problemi alcuni dei quali reali anche per loro, non un’infezione da estirpare. Da parte sua Renzi non sposerà tesi eterodosse solo per fare il controcanto a Bersani. I suoi dirigenti non strizzeranno (e non lo fanno) gli occhi ai giornali di centrodestra; non si eserciteranno in continue operazioni tatticistiche per disarcionare il leader. Renzi, in fondo, ha semplicemente un’idea diversa di forma-partito, di rapporto con gli elettori. Il sindaco di Firenze ha un problema con il Pd, certo, ma intende porsi alla guida di quel mondo, non lo vuole sconvolgere. Vuole solamente diventare lui il leader della sinistra e del suo popolo.
E Renzi, soprattutto, sembra stare alle regole. Fino a questo momento, è rimasto leale al suo partito. Non ha giocato sporco sulle disgrazie del segretario. Anzi, è più volte intervenuto a sostegno di Bersani quando questo l’ha chiamato. Adesso, certo, Renzi si è stancato dello stallo ed è uscito pesantemente allo scoperto. E i suoi avversari interni stanno reagendo a tono. Nessuno dei due, però, intende disconoscere politicamente l’altro. Nessuno dei due parla di “incompatibilità” o, viceversa, “scopre” solo adesso che il proprio alleato di una vita è un despota da abbattere. Renzi, in fondo, non sembra politicamente così sprovveduto come lo è stato Gianfranco Fini con la sua truppa. Né Bersani sembra così disabituato e allergico alla minoranza come ha dimostrato Berlusconi. Continueranno a farsi del male, ovviamente. Ma nessuno dei due vorrà essere ricordato come colui il quale ha sepolto politicamente la sinistra italiana.