Lettera a Giorgio Falco scrittore
Caro Giorgio,
raccontare significa avere a che fare con il destino. Non sai mai cosa ti abbia riservato un racconto. Narrare l’Italia poi vuol dire scoprire l’impensabile. Tuttavia, gentile Giorgio Falco, il suo racconto degli anni settanta non convince. Con pochi anni in più di Lei, scrivo per guardare indietro, volendo rivedere una storia per la quale fui un testimone appassionato di passioni, quelle neofasciste. Le scrivo senza alcuna intensità polemica, dopo aver letto il Suo recente ‘Sottofondo italiano’ edito da Laterza (pagg. 81- euro 14,00).
“Nonostante le scritte rosse sui muri, che leggevo come un rosario dal finestrino dell’autobus, ero circondato dal fascismo.” Così Lei introduce i seguenti motivi: ogni rigidità era fascista; ogni sogno cattivo era rappresentato da un uomo, cioè “un neofascista più fascista di un fascista.” Pertanto viene creata un’immagine televisiva dei fascisti. Tutti brillantina. Carrieristi. Violenti e potenti. “I fascisti occupavano l’esercito, la polizia, le questure, le prefetture, le trasmissioni televisive, erano infiltrati nelle federazioni giovanili dei partiti di sinistra, nei sindacati, erano nelle tifoserie delle squadre…” Per Lei i fasci erano onnipresenti. Per me, invece, erano aristocraticamente ai margini. Quando i figli dei comunisti e dei cattolici si candidavano per una borsa di studio, questi vincevano sempre; i prof li favorivano; nelle aziende i sindacalisti facevano assumere quelli con la tessera del Psi o della Dc; nelle redazioni, se non facevi l’amore con Karl Marx, non potevi neanche mettere un piede. Non c’era spazio per una presenza non di sinistra nelle scuole come nei tribunali. (Ah, i giudici militanti e operaisti!) Però, Lei ha idee diverse e scrive, “I fascisti erano ovunque e potevano fare tutto ciò che volevano, avevano infinite coperture politiche, giudiziarie.”
Non è esatto. Lei generalizza i fenomeni. Il paese da Lei raccontato non corrisponde all’Italia di chi si dichiarava neo-fascista, di chi non metteva le bombe, non sparava nelle strade, non gestiva un potere enorme. Lei identifica il complesso fenomeno del neo-fascismo con le sigle dell’estremismo, Avanguardia nazionale, Ordine Nuovo, Ordine Nero, Terza Posizione, Nar. Invece, da una parte, vi era (anche) una destra extraparlamentare interessata alla ‘strategia della tensione’ e ad una deriva autoritaria del paese. Dall’altra, vi era un popolo post-fascista o neo-fascista, come Lei vuole, che votava, che partecipava alla vita politica, che si difendeva pure menando le mani, che odiava come ogni essere umano lo stragismo, che parlava di sicurezza nazionale e patria italiana, che si sentiva comunità pensante.
Mi scusi, signor Falco, ma il suo neo-fascismo è stereotipato. Così, nel Suo racconto, mette insieme mafia, servizi segreti e giovani fascisti degli anni settanta. In più, le vittime sono tutte di sinistra. I giovani missini assassinati per Lei non esistono affatto. Ecco, non c’è complessità critica nel Suo racconto. L’Italia di quegli anni era un paese bloccato, allora i fascisti e i comunisti, con le dovute differenze, desideravano la politica come scelta esistenziale, a tempo pieno, per entrare nelle scuole, per scendere in piazza, per dire basta agli scandali democristiani.
I movimenti post-fascisti erano composti da quindicenni e sedicenni. Io c’ero. Essere neo-fascisti significava dire in faccia al professore che il comunismo era una dittatura. Quando glielo dissi iniziarono grossi problemi. Venni schiacciato da una ‘macchina da guerra’ scolastica. Lei scrive di esser stato un “bambino depresso e schiacciato dalle istituzioni neo-fasciste italiane”, invece, io Le riferisco di esser stato un adolescente stritolato dalla scuola marxista e dalle parrocchie puritane.
Mi scusi, ma per fare storia è necessario andare fuori dal vissuto personale. Quando Lei scrive dei terroristi neofascisti figli di ricchi, che non potevano essere operai, compie un errore, non sviluppa un’analisi obiettiva. Vi era piuttosto un neofascismo popolare e incazzato; c’erano i figli di nessuno che si sentivano importanti con il tricolore tra le mani; c’erano i camerati disoccupati, quelli costretti a vivere senza futuro perché privi della tessera del sindacato; c’erano gli intellettuali neri senza una lira, senza nessun potere editoriale alle spalle. Ricordo un mio amico, un neo-fascista dichiarato, figlio di un fruttivendolo senza soldi. Un giorno, Paolo, il mio amico, chiamò i facchini del mercato, perché quel ragazzino che fui non poteva uscire dalla scuola, in quanto proprio i figli dei notai o dei giornalisti progressisti, lo stavano aspettando fuori; e volevano massacrarlo.
Mi scusi se parlo di me. Potrei parlarLe di quei post-fascisti intelligenti, missini galantuomini della mia città, Bari, che si chiamavano Ernesto de Marzio, Araldo di Crollalanza, Achille Tarsi Incuria, Don Olindo del Donno, che guardavano al passato per costruire un futuro migliore. Anche per questo Le ho scritto, perché Lei ha pubblicato a Bari, con la casa editrice Laterza, un sicuro punto di riferimento di equilibrio, che, promuovendo il Suo lavoro narrativo, ha però messo insieme approssimazioni narrative e ragioni storiche.
Mi accorgo infine che la Sua ricostruzione di quegli anni – senza alcuna soluzione della continuità – unisce un’idea di fascismo con un’idea di aziendalismo dei primi anni ottanta. “L’azienda recuperava dallo Stato fascista l’apparato per spegnere ogni rivendicazione dei diritti…” Perché? Al contrario, gli anni ottanta rappresentato il boom liberista. O l’ennesima americanizzazione nel nostro paese. Le selvagge ristrutturazioni di quegli anni furono svolte dai liberali di ritorno o dai socialisti anti-comunisti; e Lei lo sa.
Comunque. Sono pienamente d’accordo con la conclusione del Suo libro,“come l’abitudine di un orizzonte sia invisibile sedimentazione…” È vero, l’abitudine di conoscere, attraverso certi paradigmi storiografici, impedisce di guardare dentro le sedimentazioni del vissuto. Con questo La saluto gentilmente. Con l’idea di incontrarLa, a Bari nella Libreria Laterza, come due testimoni appassionati di passioni.