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Riletture. La vita fascinosa di Franco Califano dalla sezione del Msi al Quadraro a icona pop

by Roberto Alfatti Appettiti
3 Aprile 2013
in Scritti
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"Noi Di Settembre" Premiere - 6th International Rome Film Festival«Non ho bisogno di morire per diventare leggenda». La frase, pronunciata da chiunque altro potrebbe suonare come pretenziosa o quanto meno autoreferenziale, ma Franco Califano, scrivendo e poi interpretando alcune delle canzoni più importanti degli ultimi quarant’anni, ha lasciato una zampata profonda nell’immaginario collettivo e nella storia non solo musicale del nostro Paese. Ben più di quanto non dicano le ricorrenti quanto superficiali polemiche sull’ostentata “competenza” in materia di sesso che il Califfo, vero “Maestro” di ars amatoria con le sue millecinquecento conquiste dichiarate, dispensa con schiettezza non sempre apprezzata. E di morire, ora che è «al massimo del successo», Califano non ha nessuna intenzione. Persino l’epitaffio che si è scelto contiene in sé l’inesauribile vitalità e uno sberleffo alla malasorte: «Non escludo il ritorno» (che è anche il titolo della canzone presentata insieme a Federico Zampaglione al Festival di Sanremo del 2005 e di un suo doppio cd). Del resto Califano è già tornato, dall’inferno. Più di una volta. Figuriamoci se adesso, corteggiato com’è da radio, televisione e giornali, richiesto per serate e concerti in ogni angolo d’Italia, rinuncia a godersi la ritrovata popolarità, ottenuta anche grazie alla partecipazione al reality Music Farm. Il suo Calisutra (Castelvecchi) è il caso editoriale dell’estate e il dibattito su questo artista scomodo, libertario e anticonformista è tornato ad accendersi. Non tra il pubblico, vecchio e nuovo, che lo ama e continua a cantarne le canzoni, sempre attuali perché slegate dalle mode. A dividersi sono gli opinionisti, anche se si registrano conversioni fino a ieri imprevedibili. Persino la gauche, che l’ha sempre dileggiato, considerandolo poco più di un coatto, dopo essersi cosparsa il capo di cenere è ora in prima fila ad applaudirlo. E’ pur vero che qualche radical chic alla Michele Serra resiste fieramente nel definirlo impresentabile, ma dai piani alti dell’Unione arrivano ben altre indicazioni. Veltroni, il cui “opportunismo”, al riguardo, è impareggiabile, si è improvvisamente accorto di quanto Califano sia popolare tra i giovani romani, lusingandolo pubblicamente. E questo nonostante Califano abbia ben marcato la sua distanza nei confronti di «falsi messia e mistificatori», chiamandosi fuori dal novero dei cantautori che pretendevano di cambiare il mondo e ostinandosi a cantare in dialetto, quando non era politicamente corretto farlo, di sentimenti e vita vissuta. Ci sarebbe da arrossire di fronte ad avances così imbarazzanti, se il nostro non fosse uomo di mondo e non avesse una memoria da elefante: «C’è stato un periodo che, se non facevi le Feste dell’Unità, eri tagliato fuori. Ma ho fatto tutto da solo e ora sono felicissimo di non dover abbassare la testa se mi ritrovo davanti, ad esempio, Fassino». La sua simpatia per la destra è nota, anche se con Antonella Ambrosioni, che l’ha recentemente intervistato per queste pagine, ne ha lamentato la disattenzione – «dovrebbe incominciare a proteggere i suoi figli. Finora non l’ha fatto e me ne dispiace un pò» – aggiungendo sornione: «Se mi candidassi sarebbe una passeggiata di salute». Si prepara a diventare il Nanni Moretti della destra? A Paolo Giordano del Giornale, peraltro, ha confessato il rimpianto di non aver dato, sinora, «un contributo politico». Sono lontani gli anni in cui, come ha ricordato Luca Telese, frequentava la sezione romana del Msi al Quadraro. La sua vita ha preso un’altra direzione, ma Califano è rimasto sempre fedele a se stesso e alla memoria dell’unico «eroe» che riconosca come tale: suo padre Salvatore, piccolo importatore di legname. Se Franco è nato a Tripoli (’38) nel bel mezzo di un viaggio di ritorno in Italia, diversa è stata la sorte del genitore: «Papà andò a combattere in Africa e non tornò più, morì a trentotto anni. A me come figlio d’un decorato diedero un posto all’Inail quando compii diciotto anni. Resistetti tre mesi e poi scappai anche da lì». Troppo forte era il richiamo della dolce vita romana per un giovane «bello come il sole», sicuro di sé, sfacciato e disinibito. «Una bella accelerata alla mia notorietà l’hanno data i fotoromanzi, facendo di me il Gary Cooper delle serve», ha raccontato. La grande opportunità gliela offre, nel ’64, l’amico Edoardo Vianello, all’epoca già famoso per I watussi e Abbronzantissima: «Perché non scrivi qualcosa per me?» Inizia così una lunga e fenomenale carriera di autore che conterà circa mille canzoni, molte memorabili, basti ricordare: E la chiamano estate, cantata da Bruno Martino, Minuetto, cavallo di battaglia di Mia Martini, e Questo nostro grande amore, eseguita da Fred Buongusto. Sono tanti gli interpreti che porteranno al successo i suoi testi, da Mina, per la quale compone un intero album, Amanti di valore, a Ornella Vanoni, da Renato Zero a Lando Fiorini e Peppino Di Capri. E poi ci sono i venti album troppo “personali” per poter essere affidati ad altri, di cui il primo è un po’ il biglietto da visita di una produzione vasta quanto inconfondibile: Un bastardo venuto dal sud (1972), più esattamente da Pagani, il piccolo centro del salernitano dal quale proviene la sua famiglia.Il tutto senza trascurare l’altra carriera, quella che gli ha procurato la fama di Califfo, portata avanti con altrettanta dedizione, «perché essere un playboy non era affatto facile: ci voleva il fisico, la classe, il coraggio, una bella dose di sfrontatezza e molto tempo libero». Di quella ristretta cerchia di “professionisti” fanno parte uomini come Gualtiero Jacopetti, giornalista, regista, ma anche impenitente seduttore, Tomaso Staiti di Cuddia, «il terrore dei mariti», e Gigi Rizzi, vera e propria icona e motivo d’orgoglio del machismo nazionale per aver conquistato Brigitte Bardot, autore di una bella biografia a cura di Giangiacomo Schiavi, Io, BB e l’altro ’68 (Carte Scoperte, 2004). Perché il loro è stato davvero un altro ’68, senza molotov e lontano dalle barricate. Pur trattandosi di storie individuali vissute tra Roma, Milano e le principali località turistiche del tempo, quei ragazzi esuberanti, spacconi quanto sventati, rappresentano una ribellione generazionale spontanea e disinteressata, mai cinica, che, come ha scritto Massimo Fini nella prefazione al libro, non si alimenta nel «sottofondo politico e antiborghese della beat generation» e dei movimenti che investono università e fabbriche. I playboy, indifferenti ai richiami della rivolta e agli slogan ridondanti dei giovani arrabbiati di professione, come mentalità, gusti, tendenze e ideali, sono soprattutto «ragazzi degli anni Cinquanta trapiantati nei Sessanta» non molto diversi dai loro padri, ai quali «disobbedivano ma temendone il giudizio, contestandoli ma continuando a rispettarli». Rizzi, ma anche Califano e gli altri, «sono antropologicamente di destra», non hanno nulla in comune con i «finti rivoluzionari, giovani più scaltri, più avveduti, molto meno innocenti». E infatti, conclude Fini, «mentre i leader del Sessantotto cercheranno e troveranno tutte le scorciatoie per arrivare, facendo di una rivoluzione fallita il loro trampolino di lancio e poi monetizzeranno quella loro stagione diventando direttori di quotidiani e settimanali, anchorman televisivi, uomini politici, i playboy recupereranno i valori dei padri». E sui valori Califano non è mai sceso a compromessi. Uno su tutti: l’amicizia, nel bene e nel male. Anche quando porta guai e il tuo amico si chiama Francis Turatello ed è uno spietato boss della mala. «Turatello impazziva per la mia musica e gli piaceva il fatto che io venissi dalla strada. Gli dedicai la copertina del mio disco Tutto il resto è noia: una foto che mi ritraeva con il suo bambino in braccio». Un gesto di amicizia che Califano pagherà amaramente. Del resto, dirà, «la faccia da stronzo c’era, la lacrima mai e la mamma che piange neanche, era già morta, ero il colpevole perfetto». Il calvario di Califano era iniziato nel ’70 con il primo arresto, accusato di spaccio di stupefacenti insieme a Walter Chiari e Lelio Luttazzi. Un anno di carcere preventivo seguito dall’assoluzione con formula piena per non aver commesso il fatto ma anche dalla diffidenza che inevitabilmente circonda chi ha subito l’infamante imputazione di essere un venditore di morte. L’incubo si ripete dieci anni dopo, quando il pentito Gianni Melluso lo accusa di essere il braccio della camorra nel mondo dello spettacolo. L’esito sarà lo stesso, l’assoluzione, ma stavolta rimane dentro due anni e mezzo. L’unico che lo aiuta è Bettino Craxi, riesce così ad ottenere i domiciliari e in quella condizione di cattività persino ad incidere un disco, dal titolo significativo: Impronte digitali.Tempi che sembrano lontanissimi. Califano oggi può vantare, cosa che non manca di fare con una punta di divertito compiacimento, la laurea honoris causa in filosofia conferitagli dalla New York University per la celeberrima Tutto il resto è noia. «Frase ormai storica che ha superato in popolarità l’ormai agonizzante M’illumino d’immenso», ironizza tra il serio e il faceto Califano. Ed è il punto di riferimento per tanti giovani artisti, apprezzato dal suo pubblico, da intellettuali raffinati come Roberto Calasso e dalle istituzioni, tanto da essere entrato, caso unico tra i viventi, nella toponomastica: il Comune di Borbona, vicino Rieti, ha intitolato una piazza a “Franco Califano, musicista e poeta”. Un magistrato ha provato a far rimuovere la targa, che resiste in barba alla legge. Ma non per questo il nostro si è seduto. Anzi, è intenzionato più che mai a lavorare, soprattutto con i giovani, «i nuovi soldati del futuro» come li definisce ne Il cuore nel sesso (Castelvecchi, 2000), la cui terza edizione è tornata tempestivamente in libreria. «Posseggono quei valori che permettono lo sviluppo dell’umanità. Ma oggi sono in crisi. E’ un brutto momento. E’ come se qualcuno, dalla sua comoda poltrona di velluto, abbia pensato di controllarli facendoli diventare tutti uguali. Sono tutti drogati di cazzate e di schifezze, una generazione che non ci dorme per essere tutta uguale. E spende anche bei soldi per questo». Un incitamento a non lasciarsi inghiottire dal consumismo e dal conformismo, ricordando che un’alternativa c’è sempre, basta cercarla.

* dal Secolo d’Italia del 2 agosto 2006

Roberto Alfatti Appettiti

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