Le parlate italiane sono dialetti o lingue? Alla secolare questione sembra dare una risposta anche Wikipedia, che fra le versioni annovera anche quelle in alcune lingue italiche, del nord, del centro e del sud, accompagnate da altre lingue minori, come il Quechua, lingua di una popolazione andina. Contrariamente a quanto si pensi, le pagine sono molto ben curate e i vocaboli inseriti numerosi. Il piemontese ha più di 60 mila voci, il siciliano supera le 25 mila e il lombardo oltre 30 mila.
Proprio quest’ultimo può destare l’attenzione per l’impegno degli anonimi curatori, che si sono impegnati nella suddivisione delle traduzioni in orientale e occidentale, consapevoli del fatto che il dialetto lombardo non è uno solo, anzi se ne possono contare diversi, ma le radici linguistiche sono principalmente due, quella orobica (orientale) e quella insubre (occidentale), fra loro piuttosto differenti, tanto che ci si può chiedere se costituiscano due dialetti del lombardo o due lingue fra loro diverse. Ci sono differenze fonologiche e vocaboli fra loro non sovrapponibili. Nella cartina si può vedere una geografia delle lingue lombarde, che vanno oltre i confini regionali e nelle zone di confine si fondono con altre.
Come è tipico dell’Italia, anche all’interno delle due grosse famiglie ci sono differenze, inflessioni, vocaboli, accenti che, pur mantenendosi nell’alveo della stessa radice, possono essere sostanziali. Rimanendo nell’ambito insubre (quello noto a chi scrive) si può esemplificare citando il noto cantante Davide Van De Sfroos, che canta in comasco ed è dunque comprensibile in quasi tutta la lombardia occidentale, ma qualche terminologia a un lodigiano può sembrare estranea. Non è per nulla estranea a nessuno dei due dialetti la nota canzoncina “La bela la va al fosso /ravanei, remulass, barbabietul e spinass,/ tre palanche al mass,/la bela la va al fosso / al fosso a resentar” resa famosa nel resto d’Italia da Aldo Giovanni e Giacomo, laddove invece la parola remulass, le rape, non sarà riconosciuta facilmente da un ragazzo di oggi.
Va detto che ai più giovani, che hanno sentito la lingua locale parlato più spesso dai nonni che dai genitori, i quali l’hanno abbandonata principalmente per motivi lavorativi, certi termini risultano ignoti. Si pensi al dialetto lodigiano, dove la gonna diventa “pedagn”, la coscia “galòn”, la tasca “sacocia” e, per rimestare nelle sabbie del tempo tirando fuori qualcosa di veramente arcaico, il mungitore è il “famé” (in alcuni paesi famei). Difficilmente oggi andando dal fruttivendolo a chiedere “magiustre” verranno date delle fragole.
Per fortuna in ogni zona della Lombardia stanno nascendo e rinascendo forme di conservazione della lingua, superando quella temporanea altezzosità che aveva colto, in tempi passati, gli arricchiti di turno che ritenevano parlare dialetto come una forma di villicità. Wikipedia dunque, per tornare all’oggetto iniziale di questa breve digressione, aiuta a dare una dignità alle lingue locali ed è uno strumento in più per chi volesse studiarle.
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