Uomo infinito*, così si intitola il saggio scritto da Mauro Mazza ed impreziosito dalla prefazione di Pierfranco Bruni, di recente uscita presso i tipi di Luigi Pellegrini Editore. Un titolo che non vuole essere solo un mero gioco di parole, limitandosi a parafrasare il noto scritto papiniano Un uomo finito, appunto, ma che presenta in nuce ciò che l’autore andrà dispiegando nel corso del pamphlet, ripercorrendo la vicenda umana ed intellettuale di Giovanni Papini: da giovane e vulcanico fondatore di riviste, al suo naufragio esistenziale trasposto letterariamente proprio in Un uomo finito, sino a giungere alla clamorosa conversione ed al definitivo attracco nel porto sicuro della fede, suggellato dalla stesura della celebre Storia di Cristo.
Parlare di un personaggio multiforme e proteiforme come Papini è un’ardua impresa, ma Mazza ci riesce egregiamente, di lui mette in risalto il genio – e come poteva essere altrimenti, perché Papini genio è, e come ogni genio che si rispetti è un uomo dall’animo inquieto, inquieto come il Novecento, secolo che lo vide protagonista e di cui fu per certi versi l’incarnazione, scandendone con le sue riviste i momenti chiave, a partire dalla fondazione del «Leonardo», assieme al sodale e gemello diverso Prezzolini; gemello diverso perché seppur animato dall’”identica volontà di costruire qualcosa che lasciasse il segno”, gli era distante per “condizioni di partenza”: Papini povero in canna, Prezzolini di famiglia benestante, il primo costretto a tirare a campare con l’insegnamento, perché pur mirando a farsi grande letterato doveva piegarsi a procacciarsi quella “stupida necessità del pasto quotidiano”, l’altro forte di una dote “di fortuna e di denaro che gli derivava dalla famiglia”.
Segue l’esperienza esaltante de «La Voce», vero e proprio crocevia del Novecento non solo letterario, ma anche politico italiano, che vede la collaborazione di intellettuali dalle tendenze più disparate; per rendere l’idea vi collaborano: il deus ex machina della cultura italiana, il liberale don Benedetto Croce, l’allievo idealista Giovanni Gentile, lo storico socialista e meridionalista Gaetano Salvemini, il comunista Antonio Gramsci, il “disimpegnato” Cardarelli e il socialista “eretico” Benito Mussolini. Il progetto vociano, come secondo le parole di Prezzolini, fondatore della rivista assieme a Papini, era quello di “arricchire la coscienza politica della nazione, criticando la “letteratura inutile considerata come malattia nazionale” e di dare “larga ospitalità alla discussione di problemi pratici e politici.” Progetto, quello vociano, andato sotto questo punto di vista a buon fine, in quanto proprio nell’attività de «La Voce» è possibile rinvenire tutte le tensioni che animarono il Novecento, italiano e non.
Ma attratto dalle sirene futuriste, agli albori della seconda decade del secolo, il distacco di Papini dalla Voce diviene inevitabile: ora è il futurismo che gli si presenta come l’unico movimento d’avanguardia in “guerra contro l’accademia, contro l’università…contro la cultura ufficiale…forsennato amore per l’Italia e per la grandezza d’Italia”. Quell’amore per l’Italia e la sua grandezza che lo porterà proprio assieme a futuristi e nazionalisti, a D’Annunzio, ma anche ai socialisti rivoluzionari Arturo Labriola e Filippo Corridoni, ma contro l’amico di sempre Prezzolini, – con il quale romperà, ritrovandone l’amicizia solo molti anni più tardi – ad intraprendere dalle colonne della sua nuova creazione «Lacerba», una campagna forsennata a favore dell’ingresso dell’Italia nella Grande Guerra, una guerra glorificata in chiave superomistica – per utilizzare le parole di Marinetti – quale “sola igiene del mondo”. Ben presto però i rapporti con i futuristi capeggiati da Marinetti si incrinano, sino a giungere ad una definitiva rottura con la polemica imbastita con Boccioni che condurrà al perentorio distacco del gruppo fiorentino di Papini, Soffici e Palazzeschi dall’ala milanese del movimento.
La tragica conclusione della guerra, poi, da lui tanto desiderata, conclusasi con un bagno di sangue, guerra cui per altro non potrà partecipare a causa della sua miopia sempre più forte, lo getta in un profondo travaglio esistenziale, in quella “paura senza significato” , da cui solo l’incontro con Cristo potrà trarlo in salvo, quel Cristo conosciuto a malapena da bambino (era figlio di un ex garibaldino ateo), su cui avrà modo di meditare attraverso le pagine intimistiche dei grandi scrittori russi Tolstoj e Dostojevski, ma al quale lo condurrà in via definitiva un intimo convincimento morale: “venni a persuadermi che il Cristo, Maestro d’una morale così opposta a quella degli uomini, non poteva essere stato soltanto un uomo ma Dio”, affermerà. Ecco che quell’”uomo finito”, che acciecato dal suo superomismo aveva preteso farsi dio, pagando amaramente il fio della colpa, risorge a nuova vita, ed illuminato dalla luce della fede ritrovata, o meglio trovata, dato che non l’aveva mai avuta, con rinnovato slancio si appresta a scrivere quello che costituirà il documento della sua conversione: Storia di Cristo, nella cui stesura gran parte avrà l’azione chiarificatrice di Domenico Giuliotti, quel “cattolico scrittore (non il contrario)”, tiene a precisare Mazza, che nel periodo del travaglio era stato uno dei pochi con cui Papini si era confidato.
Fu vera fede quella di Papini? All’anima sua l’ardua sentenza, il malevolo giudizio di Gramsci più che convertito al cristianesimo lo volle opportunisticamente convertito al gesuitismo, dunque al clerical-fascismo allora dominante. Molti altri si sono cimentati a fare le bucce su ogni ambito della vita di questo autore, la cui sorte postuma può essere equiparata a quella di molti altri “inattuali” (inattuali forse perché si stagliano come giganti dinanzi alla comune bassa statura umana ed intellettuale dei contemporanei?), ostracizzati da una critica retriva e stagnante, che si limita a campicchiare pigramente barricata nei trivi della sua ortodossia.
*“Uomo infinito”, di M. Mazza, (pp. 78, euro 10,00, Luigi Pellegrini Editore)