Sogno una città nel verde (non semplicemente del verde in città!), sogno una città a misura d’uomo, senza aria satura di gas e senza ingorghi, senza distanze impossibili e senza rumori fastidiosi (soprattutto di allarmi sonori, la più idiota delle invenzioni, quando ti rompono i … timpani mi verrebbe voglia di fare il tifo per il presunto ladro). Si dirà. È un sogno improbabile, è come far passare per la cruna dell’ago un cammello! Che dire?
Quando resto imbottigliato nel traffico non mi metto a borbottare, so che imprecare è inutile. Piuttosto immagino un grande processo popolare in cui siano chiamati a rendere conto del proprio operato tutti gli amministratori delle città dagli anni ’60 in poi. E’ infatti intorno a quegli anni che cominciò in Italia lo sviluppo disordinato, anarchico, anomalo delle nostre città, all’insegna della speculazione edilizia, del pressappochismo, degli interessi privati. E’ vero che il fenomeno non è locale, che l’industrialismo e la tumultuosa crescita demografica hanno fatto sì che l’uomo perdesse completamente il contatto vivo con la natura.
Come già scriveva Pierre Drieu La Rochelle, facendo una diagnosi lucida che possiamo considerare ormai classica: “l’uomo non cammina più, né corre più, né salta. Muove a mala pena i suoi organi e le sue membra. Mangia e beve troppo. L’unico movimento che gli rimane è quello dell’erotismo. L’immensa estensione della città moderna annichilisce l’orizzonte, annega la pietra nella pietra, l’uomo nell’uomo”. Le città dell’antichità (e, aggiungo, di tutti i periodi storici in cui ha prevalso una concezione organica della vita e dell’uomo) non sorgevano a caso. Si costruivano le case dopo aver consultato gli aruspici, dopo aver attentamente valutato i venti, le acque, la posizione, le comunicazioni. La città era una cosa viva e non un semplice mercato o un affare. Oltre le mura non si poteva costruire, i trasgressori venivano severamente puniti.
Fu per questo, sia detto per inciso, che nacquero i decantati portici bolognesi, essendo aumentata la popolazione. Ma torniamo all’oggi. Prendiamo la città in cui vivo. Disattendendo la sua vocazione costiera, intravista e assecondata invece da Araldo Di Crollalanza, Bari si è espansa nell’entroterra con quartieri ghetto dal San Paolo a Carbonara 2 fino ad assumere una caratteristica forma di imbuto, dove il collo dell’imbuto è rappresentato dal centro murattiano, con tutte le conseguenze che ne derivano in termini di traffico caotico e di invivibilità.
Che fare? Per prima cosa il buon senso e l’ecologia ci suggeriscono di bloccare la costruzione di nuove case, che sta consumando quel che resta del territorio e di puntare sul riutilizzo del patrimonio edilizio esistente, sulla ristrutturazione energetica degli edifici, dando così anche lavoro più duraturo ed ecologicamente sensato. Invece, che fanno gli amministratori? Continuano a togliere vincoli, a distruggere il territorio, a ridurre gli spazi agricoli, come sta accadendo nella fascia compresa tra Japigia e San Giorgio (vanto inconsulto di Emiliano e di De Caro, mentre l’ex area Fibronit resta un parco sulla carta), ponendo le premesse per una drammatica congestione del traffico, soprattutto nei fine settimana e nel periodo estivi, in cui la statale 16 sud diventa un’interminabile coda di auto! Ed allora? E ormai troppo tardi? Se ci rassegniamo, forse capiterà a tutti noi come al protagonista di Viaggio al termine della notte di Céline che “quando uno abita a Rancy, non s’accorge nemmeno più che è diventato triste”.