Nell’anniversario della morte di Andrea Pazienza, lo ricordiamo con uno scritto di Roberto Alfatti Appetiti
«La vignetta di Andrea col maggiolone Volkswagen che sfonda il guardarail mentre i tizi dentro pensano solo a farsi passare la canna, fotografa un’epoca molto meglio di un intero trattato sociologico». Pablo Echaurren, pittore, fumettista e scrittore, ha dato atto a Pazienza di aver saputo cogliere l’inquietudine e lo spirito autentico di quella distratta transizione tra gli anni Settanta e gli Ottanta, due epoche vicinissime nel tempo eppure di segno opposto, di cui l’artista pugliese fu ponte e protagonista. Il Paz, scomparso il 15 giugno 1988 a soli 32 anni, ha raccontato quella folle corsa verso il nulla con il fumetto, un’arte considerata minore da molti, compreso il padre Enrico, professore di educazione artistica e pittore, che avrebbe voluto vedere quel figlio talentuoso alle prese con la tela. C’aveva provato, ma veder finire i suoi quadri nelle case dei costruttori e dei farmacisti, «le persone che detestavo di più», l’aveva spinto a dedicarsi ai fumetti. Una scelta dettata dal desiderio di parlare a tutti, anche a chi non aveva una particolare preparazione culturale. Scrittore generazionale senza farsi portavoce di alcuno né tantomeno disponibile ad assecondare la deriva ideologica del Movimento, il Paz avvertiva l’esigenza situazionista di immergersi tra i coetanei per raccontarne sogni e speranze come anche ingenuità ed eccessi. Nato a San Benedetto del Tronto, paese materno, e cresciuto nella paterna San Severo di Puglia, aveva frequentato il liceo artistico di Pescara per poi arrivare a Bologna nel 1974, attirato dal Dams, il nuovo istituto di discipline delle arti, della musica e dello spettacolo che avrebbe dovuto innovare i linguaggi espressivi rimasti ai margini degli indirizzi letterari accademici. Un’illusione che l’aveva lasciato in mezzo al guado: come fumettista non era considerato abbastanza artista e per il pubblico delle strisce tradizionali i suoi personaggi cattivi e alternativi (Zanardi, Pompeo e tanti altri) erano troppo trasgressivi… «La parola più usata per definire la sua arte è stata trasgressione – ha scritto Vincenzo Mollica – mentre lui si divertiva con i pellegrini della trasgressione come un burattinaio si diverte con i propri burattini». L’obiettivo era quello di svecchiare il fumetto e riallinearlo alle altre avanguardie artistiche, facendolo scendere dalle “nuvole” dell’avventura classica per imbrattarlo di attualità. «È stato nel fumetto quello che il futurismo è stato per le altre arti, una ventata di freschezza e genialità», ha detto Echaurren. Un’osservazione pertinente, se solo si pensa all’esplicito riferimento in Pentothal al futur-ardito Mario Carli e alle sue Notti filtrate. Le passioni di Pazienza sono rivolte ai grandi irregolari del pensiero, Ezra Pound su tutti e con lui Balla, Boccioni, Segantini, Severini, Carrà e Marinetti. «Questo apprezzamento per artisti politicamente scorretti può sembrare normale – ha scritto Franco Giubilei in Vita da Paz – ma nella seconda metà degli anni Settanta, coi compagni e i fasci che si sprangavano quotidianamente quando non impugnavano la pistola, le dichiarazioni d’amore per gli autori vicini alla destra avevano un suono completamente diverso». Un suono talmente stonato da far sì che venisse guardato con diffidenza. «In particolare – sottolinea ancora Giubilei – dai pezzi di Movimento più ideologizzati come gli autonomi». A chi glielo faceva notare, Pazienza rispondeva con una battuta: «Mi hanno preso per reazionario solo perché il fare sciopero per aiutare i postelegrafonici di Modena non credevo potesse servire a noi del Dams». Il mondo va in fiamme e Pazienza ne è più stupito che coinvolto. Franco “Bifo” Berardi, leader dell’Autonomia Operaia bolognese, città nella quale il pugliese visse alla fine degli anni Settanta, ne ricorda la sostanziale estraneità. «Pazienza veniva dal suo raffinatissimo mondo un po’ barbarico, quello stesso dal quale proviene D’Annunzio… un mondo primitivo e ombroso dal quale sbucano fuori personaggi giganteschi, che però rimangono un po’ ai lati della scena, a guardare quello che accade per raccontare, favoleggiare, mitologizzare. Non credo che Andrea partecipasse alle assemblee, personalmente non me lo ricordo in quel contesto». Roberto “Freak” Antoni, amico di Pazienza e voce degli Skiantos, morto lo scorso 12 febbraio, lo ha descritto come «estremamente individualista, libertario e extracodice». A tutto ciò si aggiunga l’interesse di Paz per il kendo, un’arte marziale giapponese che mal si concilia con l’immaginario gruppettaro “de sinistra”, ed ecco venire alla luce le differenze con i suoi compagni di barricata. In primo luogo estetiche. Alto quasi un metro e novanta, dandy sfrontato e narcisista, amava indossare giacche di tweed alla Hemingway e guidare ad alta velocità, malgrado la miopia, grandi auto iperaccessoriate. Frequentava regolarmente la palestra, altra abitudine ritenuta fascistoide, e in casa custodiva un’armatura da antico samurai con tanto di sciabola. Indizi univoci e concordanti, che Sandro Raffini, ex cantante dei Gaznevada, sintetizza così: «Pazienza era legato a miti che erano patrimonio culturale della destra, dalla pratica della caccia al culto delle armi e delle arti marziali». Meridionale tutt’altro che remissivo – meridionale alla Mohammed Alì, si definisce – si dice pronto a mettere alla prova il proprio coraggio nelle situazioni più estreme: che si tratti di fare il bagno con i piranha in Amazzonia o di tuffarsi sul Rio Negro col rischio di trovarsi di fronte uno squalo. Al potere non andrà l’immaginazione, cancellata dalla componente cosiddetta organizzata del Movimento, a sua volta travolta dall’onda edonista del nuovo decennio. Smarrita per strada la tentazione nichilista-punk, Pazienza diventa la rockstar del fumetto italiano celebrata su Vogue. Si esprime nei più diversi ambiti della grafica, firma manifesti cinematografici (tra cui quello de La città delle donne di Fellini nel 1980), videoclip, copertine di dischi e campagne pubblicitarie, come quella per il celebre marchio Energie, per poi tornare al fumetto.
«A un certo punto della mia vita mi sono detto: non sono nato per disegnare i guantini di Michael Jackson, e non mi interessa disegnare orologini per la Philip Watch o non mi interessa entrare nella moda. Quello che mi interessa è comunicare, continuare a raccontare favole». Quando è ormai chiaro che la spallata all’arte contemporanea non ci sarà e i suoi colleghi, svaniti i deliri collettivistici, si affrettano a cercare spazi ad personam in televisione e nei grandi giornali, facendo della satira una professione e diventando, a furia di fare caricature degli altri, la caricatura dei rivoluzionari che erano, Pazienza si ritira nella Toscana senese con la moglie. «La satira non gli è mai piaciuta – ricorda Sergio Staino, regista, fumettista e autore di Bobo – perché sostanzialmente non gliene fregava niente. Anche la sua partecipazione alla Bologna dell’Autonomia del ’77 era un modo più per stare in mezzo alle ragazze, che per un disegno o una volontà politica di lottare contro l’ingiustizia». La sua rivolta si limita a un’alzata di spalle. Se prima capricci e bizze erano concessi in virtù della giovane età e del contagioso disordine creativo dei Settanta, ora creano soprattutto fastidio. Lui non se ne fa un cruccio: «Voglio evitare il più possibile di lavorare per poter fare il più possibile quello che mi pare. Preferisco essere libero ed essere definito inaffidabile». Di ritorno dal Brasile, decide di farsi e sarà quell’ultima dose a stroncarlo. Negli Stati Uniti, probabilmente, gli avrebbero già dedicato un museo, da noi l’unica struttura esistente è il Centro Fumetto “Andrea Pazienza” di Cremona, impegnato a valorizzare giovani autori. Sarà pur vero, come scrisse Frigidaire per l’ultimo saluto a Paz, che «morto un genio non se ne fa un altro», ma continuare a puntare sui giovani è il modo migliore per onorarne il ricordo senza trasformarlo in un monumento gigantesco quanto inutile, un mito inarrivabile e incapacitante per chiunque volesse avvicinarsi al difficile mestiere del fumettaro.
Tratto da “I fumetti che hanno fatto l’Italia, Giubilei Regnani, 2014