Pubblichiamo l’introduzione di “Santa Madre Russia, Putin e il ritorno di Mosca sullo scacchiere internazionale” (Fuoco edizioni), scritto da Fabrizio di Ernesto e di prossima pubblicazione.
Chiamato a commentare la fine dell’Unione Sovietica, avvenuta circa quindici anni prima, nel 2005 il presidente russo Vladimir Putin la definì la più grande catastrofe geopolitica del secolo. Queste parole rendono l’idea del sentimento di rivalsa che anima i russi e che in qualche modo spiegano anche la politica, spesso spregiudicata, messa in atto dall’inquilino del Cremlino per recuperare il prestigio perduto e riportare la Russia nel novero delle superpotenze mondiali.
Nell’ultimo decennio del secolo scorso l’azione combinata di Michail Gorbaciov e Boris Eltsin portò, come vedremo meglio nelle pagine che seguono, la Russia a toccare il punto più basso della sua storia millenaria. Venne sciolto il PCUS e organizzata con i giovani economisti Egor Timurovič Gajdar e Anatolij Borisovič Čubais la celebre “terapia shock” che consisteva in una serie di liberalizzazioni economiche seguite dalla privatizzazione delle aziende di stato.
L’Occidente plause, ma le conseguenze interne furono di un’estrema violenza sociale. Delle riforme beneficiarono i cosiddetti “oligarchi russi” (persone, gruppi e banche vicine al potere) e le società straniere in grado di offrire capitali immediati, mentre parallelamente esplose la corruzione, la criminalità organizzata e il divario tra ricchi e poveri.
Lo statunitense Zbigniew Brezinski, ex consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, definì la Russia post-comunista “una nazione vinta”. L’impoverimento generalizzato della popolazione sembrava non dare un futuro al Paese, se non quello di essere completamente assoggettato, sia economicamente che politicamente, ai rivali d’Oltreoceano che, dopo aver sconfitto l’URSS, volevano annientarla una volta per tutte onde evitarne una possibile rinascita.
Paradossalmente a salvare Mosca fu, però, proprio Boris Eltsin, il quale nominò come suo erede politico l’allora semisconosciuto Vladimir Putin, capo del FSB (una delle agenzie che succedettero al KGB, i servizi segreti sovietici), successivamente negli anni protagonista della rinascita nazionale e leader indiscusso della Russia contemporanea.
La frantumazione del potere centrale connesso ai Soviet, che per settant’anni avevano diretto dall’alto delle loro burocrazie, nazioni molto diverse tra di loro, non solo aveva provocato un vuoto di governo, ma soprattutto lasciato allo sbaraglio dei Paesi che non nascondevano l’intenzione di staccarsi dalla “Comunità degli Stati Indipendenti” (CSI), l’erede poco fortunata dell’Unione. Nel 1998, verso la fine del mandato presidenziale di Eltsin, un’indagine del Vsyerossiǐskiǐ tsentr izučenija obščestvennogo mnenija – VTsIOM (il Centro russo per l’analisi dell’opinione pubblica) riferiva che oltre la metà della popolazione riteneva la disgregazione della Federazione, un’eventualità “molto reale”, e stabiliva perfino una graduatoria tra i candidati all’uscita, nel seguente ordine: Cecenia (26%); Caucaso del Nord, nel suo insieme (21%); Estremo Oriente russo, Primorskij kraj e Sakhalin (8%), Daghestan (7%). La fine dell’URSS aveva azzerato anche tutta la grandezza della Russia; Mosca, dopo aver per decenni determinato la vita degli Stati limitrofi, a volte con metodi autoritari, si ritrovava in una posizione subalterna che per molti risultava difficile da accettare. In meno di un decennio ci fu un brusco ridimensionamento a livello economico, politico e strategico. Ad impoverire le casse statali era stato soprattutto il tracollo del settore energetico, che per anni aveva permesso al sistema comunista di sopravvivere, tracollo dovuto a tutta una serie di fattori contingenti: la scarsità di capitali, assolutamente inadeguati agli investimenti richiesti nei giacimenti già parzialmente sfruttati e la caotica frammentazione e privatizzazione del settore petrolifero che, segnato negativamente dall’inaffidabilità dei nuovi amministratori, aveva subito danni ingenti. Tutti questi fattori uniti all’impreparazione, spesso funzionale agli interessi occidentali, dei nuovi oligarchi avevano permesso così agli Stati Uniti di inserirsi in un’area, quella caucasica e centro-orientale, storicamente sotto influenza russa.
L’obiettivo era quello di togliere alla Russia sia il petrolio che il gas (principali fonti di sostentamento), oltre a quello di installare basi militari di controllo in Asia centrale. Queste vicende però furono solo le conseguenze più estreme di un processo abbastanza lento. Il crollo dell’Impero sovietico non avvenne da un giorno all’altro; da molti anni c’erano stati segnali che indicavano il formarsi delle prime crepe nei Soviet, senza contare i campanelli d’allarme che avevano iniziato a suonare esternamente.
In Polonia l’azione combinata della Chiesa cattolica, guidata in quel momento da Karol Wojtyla (Papa Giovanni Paolo II), ed il sindacato Solidarność di Lech Walesa, stava creando una frattura sempre più marcata con Mosca, facendo da corridoio alle tante “rivoluzioni democratiche” d’Oltrecortina che una dopo l’altra avrebbero spazzato via i gerarchi comunisti per dar vita a nuove forme di governo.
Perfino nella sfera d’influenza atlantica i segnali del crollo del comunismo erano lampanti, in Italia il Partito Comunista, il più forte partito di sinistra in Europa insieme a quello francese, adottò una nuova identità di stampo socialdemocratico e meno legata all’ortodossia sovietica. Se il passaggio di consegne tra Gorbaciov e Eltsin fu accolto con sostanziale favore dalla comunità internazionale, ben più traumatico fu il clima che portò all’ascesa di Vladimir Putin, all’inizio considerato quasi un prestanome di un presidente con evidenti problemi alcolici ed alle prese con noie giudiziarie. Accolto con diffidenza e superficialità quest’ultimo si è rivelato invece nel tempo un vero e proprio animale politico che ha saputo sviluppare una visione sovietica della democrazia, essendo lui nato e cresciuto nel pieno dell’Unione.
Non è un caso infatti che i governi occidentali lo abbiano considerato, come tuttora del resto, un dittatore “soft” o, nel migliore dei casi, un presidente autoritario avverso ad ogni forma di libertà individuale.
L’obiettivo ambizioso di questo saggio è quello di ripercorrere la storia recente della Russia ed analizzare nel dettaglio la figura di Vladimir Putin, provando a capire se le accuse mosse contro di lui dal mondo occidentale siano credibili oppure strumentali ai propri interessi. Gli strateghi di Washington cercano da anni di convincere l’opinione pubblica che Mosca sia sempre più orientata verso un ritorno ad un sistema politico di tipo sovietico sotto il comando di Vladimir Putin, il quale sembrerebbe voler rispolverare dagli armadi della storia valori e istituzioni passate ormai di moda per plasmare una nuova ideologia patriottica più in linea con il terzo millennio. Già nel 2000 Putin aveva recuperato l’inno sovietico, pur cambiandone il testo, e restituito all’esercito le bandiere e le stelle rosse dei tempi dell’URSS. Nel 2013, inoltre, il Cremlino ha riesumato l’ambita onorificenza di “eroe del lavoro”, realizzato un manuale di storia unico nel quale viene esaltata la figura di Stalin, personaggio ancora molto popolare tra i russi, e manifestata la volontà di ripristinare l’uniforme scolastica, segno questo dell’egualitarismo comunista. E sempre nel tentativo di recuperare la vecchia grandezza, di recente, ha riportato la ex Repubblica autonoma ucraina di Crimea nella comune casa russa, attraverso una campagna patriottica caratterizzata dal nastro nero-arancio di San Giorgio (quello della vittoria sui nazisti, vale a dire il momento storico più alto raggiunto dall’Unione Sovietica nella sua esistenza). Su queste basi sono arrivate le accuse dell’opposizione interna al Paese che in questi anni, attraverso operazioni mediatiche organizzate da figure controverse come quelle delle cantanti punk Pussy Riot o degli oligarchi russi, al centro di fosche vicende giudiziarie, non sono riuscite a screditare il presidente Putin agli occhi dei suoi cittadini. Pertanto il nazionalismo sembra di fatto un elemento sempre più determinante della politica del Cremlino. Fin da subito esso ha favorito il ritorno di questi simboli famigliari per far rivivere gli anni della Superpotenza russa e far rinascere l’orgoglio patriottico, entrando quindi in contrasto con un Occidente via via sempre più orientato verso quella globalizzazione economico-culturale che tende a mettere questi aspetti in secondo piano, dandogli perfino delle connotazioni negative.
Indubbiamente Putin fa leva su una nostalgia dell’Unione Sovietica diffusa in ampi strati della società russa, ma allo stesso tempo sembra esserci la consapevolezza dell’impossibilità di far resuscitare ormai la Repubblica dei Soviet. Tra luci e ombre, la figura di Vladimir Putin emerge oggi in un mondo monopolare destinato col tempo a crollare.
Putin è la Russia e non si può capire il Paese senza conoscere la persona.
*”Santa Madre Russia, Putin e il ritorno di Mosca sullo scacchiere internazionale” di Fabrizio di Ernesto, Fuoco Edizioni