«La nostra vendetta sarà il sorriso dei nostri figli». A oltre trent’anni dalla morte, il 5 maggio del 1981 dopo sessantuno giorni di sciopero della fame, il militante rivoluzionario irlandese Bobby Sands resta una icona della lotta per libertà dei popoli oppressi. Non è un caso che ieri i muri di tante città d’Italia siano stati inondati di manifesti commemorativi in nome di una innegabile trasversalità: dalla Giovane Italia all’estrema sinistra di via dei Volsci, dal sito “notizie radicali” all’area identitaria vicina al Carroccio.
Se nello scacchiere geopolitico internazionale l’autodeterminazione dei popoli è un principio accantonato in nome dell’interventismo umanitario; l’irredentismo nord irlandese può di contro assurgere a battaglia unificante, vessillo nel quale riconoscersi e ritrovarsi in ossequio all’assunto evoliano “la mia patria è là dove si combatte per le mie idee”.
Sands era un soldato dell’Irish Repubblican Army. Lo scrittore Francobaldo Chiocci, inviato de Il Tempo a Belfast nei giorni terribili della protesta dei prigionieri irlandesi per le disumane condizioni negli H-Blocks, ne L’arpa la croce e il fucile (Ciarrapico editore) tracciò questo ritratto delle milizie irredentiste:
«Ira è un nome irredentista, nazionalista, da movimento di liberazione, che evoca rivolte disperate, figure di caldi sognatori e freddi martiri, di pazzi e poeti, di improvvisatori e congiurati, di “digiunatori per fame di giustizia” e giustizieri per fame di rivalsa, anche di guasconi, di bevitori, di visionari, oltre che di killer non sempre Robin Hood: grandi drammaturgie patriottiche, romanticismo, benedizioni ed anatemi, tragedie interferite da commedie, teatro politico, popolare e populista, scenografia a forti tinte».
Le guerre di liberazione sono piene di contraddizioni, anche lessicali – avviene adesso in Libia dove gli oppositori del regime del rais vengono definiti insorti, banditi o ribelli secondo canoni di legittimità variabili – dai tempi di Giuseppe Mazzini fino al Cuoco di Salò di De Gregori («c’è chi dice sono banditi, chi americani»). E di violenze figlie della cultura del terrore.
«Sto qui, sulla soglia di un altro mondo palpitante. Possa Dio avere pietà della mia anima. Sono pieno di tristezza perché so di aver spezzato il cuore della mia povera madre e perché la mia famiglia è stata colpita da una angoscia insopportabile. (…) Sono un prigioniero politico. Sono un prigioniero politico perché sono l’effetto di una guerra perenne che il popolo irlandese oppresso combatte contro un regime straniero, schiacciante, non voluto, che rifiuta di andarsene dalla nostra terra»:
sono queste – tratte da Il diario di Bobby Sands (Castelvecchi) – le prime parole che il martire europeo scrisse nel suo diario, il 1 marzo 1981, quando cominciò la sua drammatica protesta, consapevole di intraprendere una strada che lo avrebbe portato irrimediabilmente, “complice” la linea oltranzista e le mancate concessioni del governo inglese della Thatcher, alla morte. Sands era prigioniero per detenzioni di armi da fuoco, dopo una adolescenza segnata irrimediabilmente dai conflitti religiosi a Belfast, al punto da dover cambiare quartiere perché il suo appartamento era in un enclave protestante. In Un giorno della mia vita, Bobby si raccontò come un giovane “normale”, travolto dallo spirito del tempo:
«Ero soltanto un ragazzo della working class proveniente da un ghetto nazionalista, ma è la repressione che crea lo spirito rivoluzionario della libertà. Io non mi fermerò fino a quando non realizzerò la liberazione del mio paese, fino a che l’Irlanda non diventerà una, sovrana, indipendente, repubblica socialista».
Bastarono le prime angherie subite dalla sua famiglia a fargli scegliere l’impegno in prima linea, in una Belfast nella quale le anime della città sono state per anni inconciliabili.
A distanza di trent’anni, le sei contee sono attraversate da una guerra civile a bassa intensità che non conquistano l’attenzione dei media internazionali, ma il cammino verso la pacificazione ha fatto passi da gigante, fino ai governi di unità nazionale, con l’avallo di unionisti e Sinn Fein. Questa evoluzione è anche il risultato di una battaglia che ha trovato in Bobby Sands la bandiera, quella di un patriota morto stringendo tra le mani – come testimoniò monsignor Mullally – «una croce d’oro massiccio, pesante, grande come una mano, bellissima…», dono di Giovanni Paolo II.
«Il papa che conosce i nazionalismi – spiegò Chiocci – che si indentificano con la fede religiosa, in forza di quel gesto, si è prenotato la gratitudine e la fedeltà di un movimento popolare che altrimenti rischiava di dirottarsi altrove, verso altre solidarietà ideologiche».
E la vendetta del sorriso postulata dai rivoluzionari irlandesi è l’unico antidoto alla cultura dell’odio che genera odio. Sands raccontò il suo calvario con la metafora dell’allodola: «Mio nonno una volta mi disse che imprigionare un’allodola è un delitto fra i più crudeli, perché è uno dei simboli più alti della libertà e felicità. Parlava spesso dello spirito dell’allodola, quando raccontava la storia di un uomo che ne aveva rinchiusa una in una piccola gabbia. L’allodola, soffrendo per la perdita della sua libertà, non cantava più, non aveva più nulla di cui essere felice. L’uomo che aveva commesso questa atrocità, come la chiamava mio nonno, voleva che l’allodola facesse quello che lui desiderava. Voleva che cantasse, che cantasse con tutto il cuore, che esaudisse i suoi desideri, che cambiasse il suo modo di essere per adattarsi ai suoi piaceri. L’allodola si rifiutò e l’uomo si arrabbiò e divenne violento. Egli cominciò a fare pressioni sull’allodola perché cantasse, ma non raggiunse alcun risultato. Allora fece di più. Coprì la gabbietta con uno straccio nero e le tolse la luce del sole. La fece soffrire di fame e la lasciò marcire in una sudicia gabbia, ma lei ancora rifiutò di sottomettersi. L’uomo l’ammazzò. L’allodola, come giustamente diceva mio nonno, aveva lo spirito della libertà e della resistenza. Voleva essere libera, e morì prima di sottomettersi al tiranno. Sento di avere qualcosa in comune con quell’allodola e con la sua tortura, la prigionia e alla fine l’assassinio. Lei aveva uno spirito che non si trova comunemente, nemmeno in mezzo a noi umani, cosiddetti esseri superiori».
E se i sorrisi metteranno a tacere per sempre la vendetta delle armi, tutte le allodole dell’irredentismo potranno davvero avere speranza di tornare a cantare.
@barbadilloit