Settant’anni fa Piazzale Loreto, la macelleria dei corpi. Ci sarebbero tante ragioni per tacere, per affidarsi al silenzio e distogliere lo sguardo. Perché resta comunque una vergogna macabra per l’Italia e un peccato originale per la repubblica. Perché significa tirar fuori il lato bestiale del nostro paese e della guerra civile, che smentisce il mito degli italiani brava gente. Perché rievocandolo si attirano sguardi torvi e anatemi, passi per nostalgico e retrò, non conviene. Ma quando mi hanno chiesto di scrivere una prefazione al Soliloquio in libertà di Mussolini non sono riuscito a sottrarmi, benché più comodo. Mi è riapparsa intera la storia del novecento italiano, la speranza e l’illusione di una generazione che fece il fascismo e la speranza e l’illusione di una generazione che poi lo disfece e in molti casi era la stessa. Ho rivisto la storia in tuttala sua pienezza tragica e feroce, grande e vigliacca, in epoca di carestia storica. Ho ritrovato i miei quindici anni, proteso a scoprire il tema proibito,la storia che non si poteva dire, il nome che non si poteva pronunciare, lo scempio che non si poteva ricordare, neanche con una messa in suffragio. E la voglia di svelare, l’audacia di andare contro il corso del tempo e della corrente, di raccontare la verità contro tutti, in faccia al vento, fascisti a babbo morto e a viso aperto…
E poi perché, ripensandoci,non sono riuscito a distogliere lo sguardo della mente da quei corpi sfasciati,ridotti a cartoni smembrati, una donna stuprata accanto al suo uomo che aveva perso il volto. Non provavo odio per quel che era accaduto, e nemmeno vendetta; ma pietà, disperata, assoluta pietà per quei corpi sfigurati e pure per i loro carnefici, e per quella scena, quelle facce, quei gesti atroci. Da giovane, curai gli scritti e discorsi di Mussolini, e l’ultimo dei diciotto volumi si chiamava Testamento politico. Tra quegli scritti c’era anche quel Soliloquio, raccolto dal giornalista Ivanoe Fossani, che risale al 20 marzo del 1945, quaranta giorni prima di Piazzale Loreto. Scrisse la prefazione Vittorio Mussolini, il suo primogenito, che sottolineò l’ossessiva protezione tedesca. Nel soliloquio Mussolini non si riteneva il creatore del fascismo ma l’ostetrico o, per dirla con Socrate, il maieuta. “L’ho tratto dall’inconscio degli italiani – confessa in questo scritto – Se non fosse stato così, non mi avrebbero seguito tutti per vent’anni”.
È bello il titolo leopardiano che fu dato al soliloquio di Mussolini quando fu pubblicato sette anni dopo la sua uccisione, da un editore romano, Latinità: Mussolini si confessa alle stelle. È la solitudine stellare la chiave di questa confessione. È la notte in cui Mussolini dice di tornare a se stesso dopo essere stato in balia dei sorveglianti, spiato per conto di Hitler, con la scusa di essere protetto. Ma è bello, dice l’ex duce, parlare a nessuno dopo aver parlato a folle oceaniche. E indica nella notte stellata, Sirio, “così bella e splendente di felicità perché è sola”. Fascisti su Marte, si sarebbe tentati di scherzare. È un Mussolini postumo, oltre la politica, oltre la guerra, oltre il fascismo stesso. La solitudine, sostiene, misura la grandezza morale e intellettuale di un uomo. E nessun uomo può essere più grande della sua epoca. C’è qualcosa di napoleonico nei suoi pensieri estemi, l’isola Trimellone gli ispira similitudini con l’Elba e Sant’Elena. Attribuisce i riti e la liturgia politica del fascismo alla volontà di compiacere “il lato pittoresco degli italiani”. Sottolinea la mutevolezza degli italiani, il suo tentativo di farne un popolo, di far progredire i lavoratori, che lo hanno amato, avendo contro gruppi industriali e finanziari. Difende la sua dittatura come “lieve”, più lieve di certe democrazie – “il fascismo ha avuto più morti dei suoi avversari e il 25 luglio al confino non c’erano più di trenta persone”. Difende i soldati italiani, dicendo che il nostro guaio fu come sempre lo Stato Maggiore, i vertici. Ricorda il figlio Bruno, morto da eroe dopo aver rifiutato ogni privilegio. E suo fratello Arnaldo.
Poi sostiene che si legò a Hitler perché costretto dall’ottusa ostilità di Francia e Inghilterra, di cui prevede la fine dell’impero. Confessa che aveva dichiarato guerra perché l’Italia non può restare neutrale, e poi si doveva frenare “l’ingordigia tedesca”. Era stato contrario all’attacco contro la Russia deciso dal Fuhrer e azzarda che sarebbe andata meglio la guerra se avesse avuto lui la direzione generale delle operazioni. Parla del raggio della morte, che sarebbe stata un’arma decisiva per la vittoria se Marconi, lo scopritore, non fosse stato sopraffatto da scrupoli religiosi. Poi torna agli astri per notare che la stella dei dittatori dura poco nei popoli latini.
Non si pente di aver fatto del bene agli avversari, si pente invece della diarchia col Re e di essersi circondato di dipendenti più che di collaboratori. Il fascismo gli appare rovinato dallo spirito borghese; la sua via era il corporativismo. E infine l’avvenire: i fascisti del futuro dovranno agire con sentimento, non con risentimento, dice, per agevolare una revisione storica. “Non mi processeranno, perché sanno che da accusato diventerei pubblico accusatore, mi uccideranno e poi diranno che mi sono suicidato, vinto dai rimorsi” (difficile pensare a un suicida che si appende a Piazzale Loreto…). “Andrò dove il destino mi vorrà perché ho fatto quel che il destino mi dettò. Quelli che mi uccideranno saranno inseguiti dal mio fantasma… I miei figli veri nasceranno dopo”. E infine indica come una sibilla un misterioso “punto di fusione”, una specie di kairos del popolo italiano, per il quale, dice, “io darei la vita anche ora, spontaneamente”. Quelle parole in solitudine, quell’immagine notturna e stellare, quell’ineffabile punto di fusione al quale donare la vita, quel richiamo ai fascisti che verranno dopo,non ancora nati, infiammarono il romanticismo neofascista dei posteri. Ora che anche quello strascico di fascismo è stato sepolto dal tempo e dagli eventi, ora che sono trascorsi settant’anni e anche i diritti d’autore sono scaduti, è tempo di guardare a quella tragedia senza veleni passionali e conati politici. Ma con la distanza siderale di un evento storico legato a un tempo che non è più il nostro. E con la pietas che si addice all’epos di una tragedia. Su quegli eventi, prima di depositarsi la polvere della dimenticanza, aleggia la poesia, il ricordo di quell’aprile atroce, “il più crudele dei mesi”, secondo T.S.Eliot. E risale l’immagine dei Cantos, scolpita ancora a caldo da Ezra Pound, “Ben e la Clara a Milano, per i calcagni…”. Settant’anni, l’oblio e l’eternità.