Il centenario della guerra italiana bussa alle porte. E le iniziative commemorative non mancano. C’è il progetto nazionale “L’esercito marciava” con cui l’Esercito Italiano coinvolge le scuole, da Lecce a Trieste, per raccontare il Primo conflitto mondiale ai giovani. C’è la notevole mostra, voluta da Intesa Sanpaolo, “La Grande guerra. Arte, luoghi e propaganda.” Al centro di quest’ultima proposta, la narrazione della guerra, gli artisti che guardarono nella tragedia e una selezione di film per ricostruire la vita in trincea. Così duecento opere raccontano gli anni della guerra attraverso dipinti, manifesti e video.
Tralasciando le tante pubblicazioni sul tema storico, il tutto spinge verso un significato, ossia mai smettere di ricordare. E il ricordo di quel sacrificio italiano troppe volte è apparso in ombra. I nostri giovani non comprendono i nomi delle vie dedicate a Cesare Battisti o a Fabio Filzi; eppure le scuole e le caserme conservano lapidi e testimonianze di un paese che credeva, si accendeva, si schierava.
Non si tratta ora di celebrare la guerra. Si deve principalmente divulgare la memoria nazionale e difendere dall’incuria i monumenti dedicati al conflitto. A Bari, purtroppo, solo pochi giorni fa, hanno sfregiato la statua dedicata ad Armando Diaz. E da nord a sud i sacrari militari sono dimenticati, privi di risorse economiche.
Nondimeno, la ricerca storica continua ad interrogarsi sulla guerra italiana nel quadro del conflitto europeo. Ricca di significati è ‘La postilla storiografica’ di Emilio Gentile nel recente, ‘Due colpi di pistola, dieci milioni di morti, la fine del mondo’ (2015, Editori Laterza). Qui lo sguardo dello storico entra nell’Italia del 1915, osserva la guerra e la sua origine attraverso “l’influenza del passato, la collocazione geografica, le forze economiche e sociali, l’orientamento e il comportamento delle masse.” (pag. 220)
Di certo, fare un punto sulla guerra significa ricordare, alle giovani generazioni, che il paese nel 1915 era diviso, ma, nei tre anni successi, espresse una speciale coesione nazionale. Seicentomila morti, regioni del nord Italia devastate, una gigantesca crisi economica, però, gli italiani resistettero, piansero i loro morti, furono nazione. Mentre i governi tentennavano e i generali sbagliavano le strategie, si formò l’esercitò nazionale e la marina militare scoprì potenzialità tecnica uniche. Dopo la sostituzione del generale Cadorna, gli ufficiali tennero unite le truppe con l’esempio, con l’incitamento. E avvenne che nelle trincee restarono uniti uomini culturalmente diversi; così si formò un esercito di valore in un paese privo di grandi tradizioni militari.
L’Italia del Primo conflitto mondiale non abbassò la testa. Avrebbe potuto chiedere l’armistizio, dopo Caporetto, nel 1917. Non lo fece. Certo, nel maggio del 1915, il paese fu sacrificato dalle scelte forzate del sovrano, dagli interessi dei gruppi industriali, dalle piazze in fermento. Con questo, tuttavia, gli italiani andarono in guerra. Tutti. I coscritti e i volontari. E soffrirono. Morirono. Ressero ai colpi delle mitragliatrici. Quei soldati resistettero alla ‘spedizione punitiva’ del 1916. Alla crudeltà dei processi militari dei fratelli contro i fratelli nel 1917. Inoltre, nelle città, i civili furono donne e uomini responsabili, mentre i razionamenti alimentari facevano male.
In questi giorni, l’Italia ha la possibilità di essere raccontata un’altra volta. Facendo attenzione a non cadere nella retorica, è obbligo richiamare alla memoria i soldati che vissero una carneficina europea. Quegli italiani, sul fiume Isonzo o sui prati di Vittorio Veneto, obbedirono agli ordini per difendere lo Stato, un giovane e debole Stato, non un potente Stato europeo, imperialistico e austro-germanico.