Caro direttore,
l’annunciata politica monetaria espansiva di Mario Draghi con l’inizio dell’acquisto di titoli dei debiti pubblici e privati nell’eurozona per 60mld/mese e la caduta del prezzo del petrolio non potevano che generare una spinta alla ripresa economica. E così è stato anche per l’Italia dove, purtroppo, la prospettiva continua ad essere una crescita tra le più basse in Europa. Ma veniamo subito al punto. Come è sbagliato contrapporre austerità e flessibilità, alla stessa maniera sa di naftalina contrapporre pubblico e privato. Una economia, per crescere, ha bisogno di far debito, ma quanto basta perché sia sostenibile, ed ha bisogno di austerità nella finanza pubblica ma quanto basta per non entrare in recessione. Alla stessa maniera il mercato è neutrale rispetto alla natura della proprietà delle imprese, pubblica o privata, sempre quando, naturalmente, le sue regole e i suoi organi di controllo funzionino “erga omnes”. Venendo al nodo della questione da te sollevata non c’è alcun dubbio che da almeno venti anni l’Italia non ha più una politica industriale. Con tale nome si intende un complesso di azioni favorenti la nascita e lo sviluppo delle imprese con focus settoriali precisi e con esse la crescita dell’occupazione e della produttività. Quando si parla senza sapere o senza memoria, si offre il fianco a figuracce con giudizi approssimativi e con strafalcioni da matita blu. E ci spieghiamo. Gli anni ’90 furono caratterizzati da una idea salvifica, le privatizzazioni, che avrebbero rilanciato competitività, produttività, crescita, occupazione e risanamento dei conti pubblici. È accaduto l’esatto contrario. Abbiamo perso produttività del lavoro e quindi competitività, siamo da vent’anni la cenerentola d’Europa per tasso di crescita con una nuova crescente povertà di massa e il debito pubblico è aumentato in valore assoluto del 150% rispetto alla fine del 1991nonostante i 160 miliardi di euro incassati per le privatizzazioni. Nel frattempo, però, sono passati e continuano a passare in mani private estere parti rilevanti del sistema bancario (BNL, MPS, Cariparma e Unicredito e, con la riforma delle banche popolari, il processo avrà un’accelerazione), della siderurgia, della chimica, dell’alimentare, della farmaceutica, della grande distribuzione, delle telecomunicazioni, della produzione elettrica, dell’avionica e potremmo continuare. Tutto questo senza che il nostro capitalismo si sia internazionalizzato, cioè senza reciprocità alcuna, anzi ha ritenuto che internazionalizzarsi significava farsi comprare con alcune eccezioni, naturalmente, di medie imprese diventate piccole multinazionali. Le responsabilità sono ovviamente della politica, ma anche di quel salotto buono di cui si parlava negli anni ’80 che, con la eccezione della FIAT di Marchionne, è tutta miseramente fallita sino al caso scuola dell’amico Tronchetti Provera che ha dato il controllo della Pirelli ai russi della Rosneft per rimanere un po’ di anni in più sulla tolda di comando. Se questi sono i fatti, allora bisogna capire una volta e per tutte che la nostra forza produttiva è data dalle piccole e medie imprese che rappresenta la nostra vocazione di fondo. I partiti nel dopo guerra capirono che questa forza era anche una debolezza in particolare sul terreno della innovazione e affiancarono al mondo delle piccole e medie imprese le grandi aziende a partecipazione statale che fecero entrare l’Italia nei settori a tecnologia avanzata (energia, telecomunicazioni, spazio, informatica, chimica, aeronautica) che richiedevano grandi investimenti a redditività differita che non rientravano nelle possibilità di quel capitalismo italiano senza capitali. Quelle grandi aziende pubbliche, anche con qualche errore, svilupparono l’Italia industriale rilanciando ricerca ed innovazione in collaborazione con università ed industrie private (a chi non lo ricordasse Giulio Natta ebbe nel 1963 il premio Nobel per la chimica). Per dirla in breve, ricerca e innovazione, motori dello sviluppo e della competitività, avevano dietro di sè le grandi aziende a partecipazione statale e strumenti finanziari come “il fondo rotativo ricerca & innovazione”, la legge 675 per la riconversione industriale, la legge Prodi per le imprese in crisi, la legge 808 che dette impulso all’industria aerospaziale, i contratti di programmi con i grandi gruppi per i quali basta ricordare quello per la Fiat di Melfi realizzato nel 1990 da chi scrive. Oggi di questi strumenti è rimasta solo la legge Prodi rivisitata dalla legge Marzano e qualche contratto di sviluppo affidato ad Invitalia. Alcune cose buone di oggi come la decontribuzione triennale per i nuovi assunti altro non è che la vecchia fiscalizzazione degli oneri sociali per le industrie nel mezzogiorno che durava 9 anni ma non c’è dubbio che manca una visione di politica industriale, non ci sono più i protagonisti pubblici nel mercato e neanche gli strumenti messi a disposizione dai governi dell’epoca e men che meno l’aiuto di quella finanza degenerata in un’industria a se stante avendo abbandonato quel ruolo di infrastruttura al servizio della produzione. Se in sintesi è questo il quadro che è davanti ai nostri occhi e se il Paese in 20 anni è stato privato di protagonisti finanziari ed industriali pubblici e privati all’altezza dei bisogni, sarà necessario che sia la Cassa Depositi e Prestiti il nuovo protagonista dello sviluppo del Paese che, seppur privo di fondi di dotazione, è molto più ricco della vecchia IRI perché gestisce il risparmio postale italiano che vale oltre 200 miliardi con un flusso annuale di 10-12 miliardi circa. La Cassa, però, deve darsi una regolata e nella propria autonomia deve avere dal Governo e dal Parlamento linee di indirizzo per evitare che si entri in catene alberghiere o in altri settori che non hanno nè valore strategico nè carico innovativo. Bisogna inoltre ripristinare in forma diversa, fiscale, normativa e finanziaria, quegli strumenti che aiutano le piccole e medie imprese che sono ad un tempo la nostra vocazione produttiva e la nostra forza manifatturiera abbattendo parte di quegli inutili incentivi industriali. Tornando all’inizio del nostro discorso chi volesse accusarci di neo statalismo o di neo dirigismo sappia che gli attivi bancari sono in Germania per il 51% in mani pubbliche mentre in Francia lo sono per il 20% e in Italia per 12%. Germania e Francia, come si sa, non sono paesi dirigisti. Come se non bastasse, nelle economie di quelle democrazie il pubblico mantiene nelle proprie mani asset industriali importanti mentre la nostra Finmeccanica continua a vendere aziende con importanti now tanto che trova compratori ad ogni angolo del mondo. E più che mai necessario, dunque, dare al Paese una visione industriale ed un rinnovato protagonismo pubblico nell’economia (ma non nelle schiantate municipalizzate) sapendo che l’equilibrio di forza tra i Paesi nel mondo è dato dalla finanza, dalla ricerca e innovazione e dalla formazione del capitale umano, terreni sui quali l’Italia in 20 anni è arretrata di secoli diventando, di fatto, un piccolo Paese nel nuovo Commonwealth finanziario, industriale ed innovatore che guida, purtroppo malamente, l’Europa ed il Mondo. (Lettera a Il Foglio)