Alla fine la sintesi di tutto la fa lui stesso, Ottaviano Del Turco. Tra una “giustizia giusta” che ha il volto di Berlusconi, dice, e una Procura che annuncia prove schiaccianti salvo chiedere due volte la proroga delle indagini e vedersi poi crollare nel dibattimento l’impianto accusatorio, ci dovrà pur essere una via di mezzo. Ma non c’è, in quest’Italia. E lui sta lì, Ottaviano, ad aspettarla. Da uomo di sinistra. Garantista. E pure da socialista. Che poi, scava e scava, stava tutto lì il problema. Quel 12 luglio del 2008 quando fu investito da un treno giudiziario lanciato a folle corsa fu molto facile, per molti, giustificare tutto: figuratevi, è un socialista.
Del resto il refrein era quello. Tangenti, milioni di euro di tangenti intascate sull’uscio di casa a Collelongo, nelle buste della frutta. Il re delle cliniche abruzzesi Vincenzo Angelini era costretto a pagare, poverino, per avere finanziamenti regionali alle sue strutture. E quindi venne il carcere, l’isolamento, i domiciliari, le dimissioni da presidente della Regione Abruzzo, il massacro mediatico e le invettive politiche. Dolorosissime, quelle. Perché provenienti più da sinistra, il suo mondo, che da destra. Aveva aderito al Pd, ma sempre socialista era. E quando si parla di giustizia, a sinistra, è sempre un dramma. Fortuna che in molti, allo stesso tempo, non l’hanno abbandonato. Nella sua vita divisa tra il sindacato e la politica ne ha conosciuta di gente. Dopo la licenzia media presa alle scuole serali, impiega pochi anni ad arrivare, attraverso la Fiom, nella segreteria di Luciano Lama come segretario aggiunto. Poi il Psi di Craxi, quello ricco e potente. Ma anche quello pieno di debiti e travolto dalle inchieste che si trovò a guidare durante tangentopoli. Fino al partitino di Boselli con cui arrivò a fare il ministro delle Finanze nel Governo Amato.
Ora, pian pianino, dopo quasi cinque anni Ottaviano Del Turco comincia a intravedere, in fondo al tunnel, un po’ di luce. Si fa per dire. Perché, parole sue, ha perso tutto. Triturato politicamente e umanamente da una vicenda giudiziaria grottesca e in un certo senso paradigmatica. Le ultime udienze del processo che lo vede imputato a Pescara stanno raccontando un’altra verità. O meglio, stanno evidenziando inesattezze e incongruenze che minano le fondamenta dell’accusa. Foto che ritraggono mazzette di soldi risalenti a date diverse da quelle sostenute dall’accusa. Spostamenti in auto indicati sui registri dei Telapass che non coincidono.
Elementi che, uniti alle 104 rogatorie con esito negativo alla ricerca del famoso tesoro di 6 milioni di euro, stanno portando il processo verso un’altra direzione. Il tutto ricordando sempre le “prove schiaccianti” di cui parlò il Procuratore capo di Pescara Nicola Trifuoggi in conferenza stampa all’indomani dell’ondata di arresti che aveva decapitato la Giunta abruzzese. Oppure i pizzini ricevuti da Del Turco in carcere e denunciati dal gip Maria Michela Di Fine, che altro non erano che semplici bigliettini di solidarietà inviati da una trentina di parlamentari, Bersani compreso. Intanto Marco Travaglio ammonisce: “Aspettiamo la sentenza prima di fare assoluzioni”. Aspettiamola anche prima di fare le condanne, però. Che poi, per uno che era già condannato, aspettare fiducioso una sentenza è già una mezza vittoria.