“Dei senza nome che qui morirono; Nel fuoco infernale creato dalle mani dell’uomo”. Queste parole, impresse nella fredda pietra del memoriale di Heidefriedhof a Dresda, raccontano l’epica tragedia che colpì la popolazione della città tedesca durante i ripetuti bombardamenti del 13 e 14 febbraio 1945. In quei giorni l’inverno e la guerra volgevano al termine e, mentre a Berlino e nel cuore della Germania in pochi ancora resistevano all’avanzata statunitense ad Occidente esovietica ad Oriente, l’aviazione Alleata continuava imperterrita a sganciare ordigni sulle città dell’Est della Germania, occupate sempre più da profughi che da militari.
Il 13 febbraio furono centinaia gli aerei britannici che sin dal mattino, oscurando il cielo su Dresda, sganciarono migliaia di bombe esplosive ed incendiarie, radendo totalmente al suolo il centro della città e la sua periferia.Il giorno successivo seguirono invecei raid dell’aviazione statunitense che, con i suoi B-17, terminò la distruzione e il massacro della cittadinanza stremata. Le vittime stimate sono decine di migliaia (circa 25.000) anche se lo stesso Adenauer dichiarò, ormai a guerra finita e a rivalità apparentemente assopite, che i morti di quei bombardamenti furono circa 250.000. Statistiche a parte, le bombe su Dresda, l’enorme incendio che si divampò, le donne e i bambini sfollati che, tentando di sfuggire agli ordigni nelle strette vie dell’Altstadt, venivano ingoiati dalle fiamme, sono stati e resteranno l’emblema della distruzione provocata dal “terrorismo aereo” dagli Alleati sin dal 1940. Una strategia bellica quella terroristica per molti, guerra e distruzione dell’identità di un popolo per altri.
Se si volesse realmente e nel profondo giustificare tale distruzione, sarebbe arduo qualsiasi lavoro storiografico perché, come spiega Richard Overy nel suo “The bombing war (2014)”, la città di Dresda, come molte altre dell’est della Germania, non era un importante obiettivo militare, non aveva numerose infrastrutture, non rappresentava un’importante agglomerato industriale, era tuttavia simbolo di quella ormai svilita identità germanica, prima nemica di Churchill e di gran parte dei cittadini di sua maestà britannica ( ravvedimenti dell’ultima ora a parte).
Durante il bombardamento infatti, al di là dei fisiologici danni apportati alla ferrovia e ad alcune caserme, la zona maggiormente colpita fu l’attuale centro storico, luogo maggiormente abitato, nel quale si raccoglieva gran parte della popolazione civile massacrata. La mortale commistione di bombe incendiarie ed esplosive, sganciate nei secolari e stretti vicoli della città, costeggiati da piccoli palazzi di legno, crearono una vera e propria tempesta di fuoco con enormi esplosioni che inghiottì l’intera città; fu l’inferno. Dresda venne rasa al suolo, e della sua gente, dei magnifici palazzi e chiese barocche, restano solo fotografie ingiallite. Solo nel 2010, a quasi vent’anni dal crollo della DDR è stata possibile una seppur parziale ricostruzione dell’antico centro della città.
Le modalità del bombardamento, il numero e la caratteristica delle sue vittime(quasi esclusivamente civili) già dal dopoguerra hanno creato terreno fertile per un ampio dibattito storiografico, dal quale è emersa la possibilità di inquadrare il massacro di Dresda tra i crimini di guerra alleati.
Tuttavia gran parte degli storici britannici e statunitensi si sono spesso rifiutati di ritenere quel bombardamento un “war crime”, sebbene ultimamente una serie di pubblicazioni tra cui lo stesso “The bombing war”, “BombsAway (2013) di Bruning, o anche “Inferno”(2007) di Lowe, sembrano aver rimescolato le carte in gioco. Inoltre le manifestazioni britanniche contro l’installazione nel 2012 della statua di Arthur Harris (comandante del “Bomber Command” della RAF) responsabile dei bombardamenti sulla capitale della Sassonia e non solo, e le proteste degli abitanti di Dresda sopravvissuti sembrano aver riaperto un seppur lieve dibattito accademico sull’accaduto e riacceso la luce del ricordo su quelle migliaia vittime civili che con la guerra e il fronte avevano poco a che fare.