“Sono diventato deputato il 3 giugno del 1979. Era un giorno di pioggia e, insieme a me, entravano a Monte Citorio, per la prima volta, Pinuccio Tatarella e altri parlamentari che hanno lasciato un segno nella vita politica italiana”. Lo ha scritto Ugo Martinat nell’introduzione al suo libro “Ventidue anni a Monte Citorio. Un profilo politico”, edito nel 2000, una sorta di testamento spirituale e politico.
Da allora, da quel’79, Martinat è sempre stato riconfermato in Parlamento, sino al 28 marzo 2009, quando è morto all’ospedale del Celio di Roma, proprio mentre stava nascendo il Popolo della Libertà a pochi chilometri. Una settimana prima era stata sciolta Alleanza Nazionale, proprio per mettere in atto quella che molti considerano una fusione “a freddo”.
“Che fai, mi cacci?”. Venne poi la frattura tra Berlusconi e Fini, sino a giungere al fallimento del Pdl e alla decomposizione della destra.
Come si sarebbe comportato in questo scenario Martinat? Se lo sono chiesti in molti, da quello che viene considerato il suo erede politico, Agostino Ghiglia, all’amico personale di sempre, Livio Pascale.
Ma forse la risposta l’aveva data lui stesso nel libro autobiografico: “Io sono un finiano come Fini è un martinatiano. Comunque, io seguirò le indicazioni del mio partito”.
“Martinat in fondo è stato un uomo che ha condiviso ogni scelta e l’ha sempre condivisa con disciplina, quando era pienamente convinto e anche quando poteva nutrire qualche dubbio, ma seguendo il percorso di una comunità. Essendo uomo dell’azione e del fare, ha fondato radio, ha creato giornali e ha consentito a nuove generazioni di dirigenti politici di schierarsi, di crescere e di arrivare fino all’esperienza del Parlamento” è il giudizio che esprime Maurizio Gasparri.
“Era una persona che dava risposte. La sua caratteristica principale era innanzitutto l’affidabilità: a Ugo potevi affidare la tua vita, le tue idee, la tua amicizia, anche i tuoi soldi se per caso avessi avuto bisogno di affidarli a qualcuno, e potevi essere sicuro che lui avrebbe fatto esattamente quello che ti aveva detto e quello che ti aspettavi lui facesse” testimonia Ignazio La Russa.
Uomo capace di essere duro come l’acciaio quando le sue idee lo portavano a essere tale – senza però mai rinnegare il passato -, fu però anche capace di compiere una metamorfosi e diventare uomo delle istituzioni, uomo di governo, uomo delle responsabilità (prima viceministro per le Infrastrutture e i Trasporti, poi sottosegretario per lo Sviluppo economico), uomo del fare e non solo uomo del contrastare.
“Ho avuto la possibilità di partecipare alle battaglie della destra italiana e di difendere gli interessi legittimi italiani, di Torino e del Piemonte, questa nostra meravigliosa terra troppo spesso offesa, troppo spesso saccheggiata da autentici predoni della politica, troppo spesso maltrattata da una gestione irresponsabile della cosa pubblica. Battaglie innanzitutto per la difesa della vita, per la sicurezza del cittadino per l’ordine pubblico, per ridare slancio alle grandi opere, per il benessere del Piemonte, per il futuro della nostra nazione” ha scritto Martinat.
Classe 1942, di Settimo Torinese, amava profondamente la sua regione, al di là dei vari appellativi che gli furono appiccicati addosso: dal federale del Piemonte al proconsole di Almirante e Fini all’ombra della Mole . Il suo amore è ben testimoniato da questa sua convinzione: “Sosteniamo un Piemonte che esca dalla zona di confine per diventare una zona di cerniera in Europa”.
Lui, che si era battuto per una legge sui lavori pubblici alternativa alla Merloni, che puntasse alla semplificazione, è sempre stato un convinto sostenitore dell’Alta velocità.
Martinat il veterano delle aule e dei corridoi che traghettò il Msi nella sponda moderata, quella che è poi stata di governo. È stato uomo della battaglia politica in anni difficilissimi. Ha iniziato il suo impegno in anni in cui collocarsi a destra era una scelta di coraggio e difficile in una città che ha conosciuto – come tante parti d’Italia – momenti difficili che fanno parte di una storia per fortuna oggi consegnata al passato. È stato un dirigente e un militante di partito nel senso più nobile del termine, nelle responsabilità che ha ricoperto, nella militanza giovanile e in quella di partito, nelle assemblee comunali e poi nella sua crescita e nel suo percorso nel Parlamento.
“Con tutti noi ha condiviso questo impegnativo ed esaltante percorso che, da quelle esperienze che ormai appartengono ad una storia lontana, ha portato fino alla nascita del Popolo della Libertà – ricorda ancora Gasparri -. Fino al giorno prima, nonostante un male che inesorabilmente lo ha travolto con drammatica rapidità, egli ha ragionato di fatti politici con chi di noi ha avuto l’opportunità di incontrarlo. Con La Russa e Matteoli, ai quali è capitato di seguire il suo calvario fino all’ultimo, egli ha discusso di cose politiche, del congresso che simultaneamente a questo dramma si era aperto, dell’organizzazione del nuovo partito, dimostrando fiducia in un destino (che forse sperava fosse più clemente), ma, soprattutto, consapevole che la sua esistenza di uomo pubblico e di uomo dell’impegno politico era la sua vita, sostanzialmente e fino all’ultimo istante”.
Martinat dunque, l’uomo pragmatico del fare, che considerava che le campagne elettorali non dovessero annoiare i cittadini, ma andassero fatte al momento giusto.
Ed ancora il dirigente di partito che quando si sedette al tavolo per le elezioni regionali piemontesi del Duemila disse chiaramente: “Noi vogliamo consolidarci, non crescere. Qualcuno non ha capito che si governa meglio con il 12-15 per cento, senza confonderci solo per il giusto di attingere nuove forze. Quando vado alle trattative, voglio avere un partito che esegue. Gli altri invece devono ancora confrontarsi con tutte le correnti”.
Il controverso rapporto con la Lega in Piemonte
L’unico suo fastidio è sempre stata la Lega Nord, ma alla fine la sua criticità lasciò spazio al dato di fatto: “L’alleanza con la Lega si è rafforzata. Abbiamo avuto problemi all’inizio, poi però le cose si sono aggiustate. Meglio litigare prima e poi lavorare bene dopo. Penso che gli attriti siano terminati con l’equilibrio che abbiamo raggiunto nel documento sul federalismo”.
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