Taranto vuol dire molte cose. La Magna Grecia, afa, strateghi e atleti, coloni spartani e eroi dell’acciaio, il Mar Grande e il Mar Piccolo, «asfalto ciminiere rotaie petrolio loppa e ghisa», il veleno, gli altiforni, il petrolchimico, i cantieri navali, la siderurgia. Cioè il mare e l’acciaio. C’è materia per un romanzo, anzi per un poema.
Acciaiomare, di Angelo Mellone, è tante cose. È un poema, un pamphlet in versi, un monologo poetico, un j’accuse, un’arringa difensiva, un urlo mitomodernista, un pezzo di storia d’Italia e la cronaca antica dell’Italsider: in parte diario, in parte flusso di memoria, in parte «canto dell’industria che muore», come da sottotitolo.
L’industria che muore è quella dell’acciaio: l’impero dell’Ilva-Italsider, il Siderurgico – «la nuova acropoli» – la città inferno e paradiso, cioè Taranto.
A Taranto, Angelo Mellone (giornalista-scrittore di destra, nato a Taranto nel 1973, figlio di Nicola Mellone, un tirocinante del «costruendo stabilimento» diventato dirigente Italsider e portato via da un tumore, a Taranto, nel 1986) dedica il poemetto Acciaiomare (Marsilio, pagg. 92, euro 9), così anacronistico e fuori-genere (quanto può esserlo un poema autobiografico-industriale nel 2013) da diventare necessario e attuale. Necessario perché Mellone (ci) ricorda un dramma che è quello del declino industriale italiano, e un mondo, che è quel Mezzogiorno che vuole resistere ai veleni, al cancro e alla crisi. E attuale perché nello scontro sul caso politico-economico dell’anno, Mellone fa il (contro)canto all’«ondata ambientalqualunquista» che l’estate scorsa ha investito, e sommerso, una città messa alla sbarra e alla prova, tra inquinamento e lavoro.
Su Taranto e l’Ilva è stato scritto molto: articoli, commenti, inchieste, report, denunce, referti medici, ricorsi. Mellone ha scritto versi: «Acciaio, vanto traslucido del distretto/ di Occidente,/ immaginato a emblema/ di un secolo intero, il Novecento delle masse/ in movimento».
Un poemetto necessario e attuale, perché ricorda, a noi incoscienti smemorati, «che Taranto prima dell’industria/ e della potenza d’arsenale e naval-meccanica/ era un tugurio fortificato/ di pescatori poveri e muffa di pietre». E che «non mentono quei due operai/ con parole che sgorgano storia/ di blasone inconsapevole e perciò trasparente/ all’uscita del Siderurgico quando dicono/ d’esser soldati e non salariati».
* da Il Giornale del 22 febbraio 2013