Louis Ferdinand Destouches, detto Céline, uno dei grandi del 900 per le sue poderose opere che hanno rivoluzionato la lingua francese, condizionando ancor oggi il modo di scrivere, Céline, lo scrittore maledetto, che tutto dissacrò e che con i suoi pamphlets, urlati contro gli spettri di una guerra che ritornava (volle lordarsi di un antisemitismo tanto iperbolico da divenire grottesco), è comunemente ritenuto un personaggio che sfugge ad ogni qualificazione politica od ideologica, una specie anarchico individualista che sbraita contro tutto e tutti, denunciando le storture della moderna civiltà delle masse e delle macchine.
Urlo per principio, dice Céline. Eppure, abbassando il volume, anche dalle sue opere è identificabile un quadro di riferimento ideologico abbastanza preciso. La natura ideologica di Céline, al contrario di quella di altri autori a lui contemporanei, quali ad esempio Drieu La Rochelle e Bracillach che interpretavano una nuova destra radicale e rivoluzionaria, è ricollegabile ai temi, agli umori, alle prospettive della vecchia destra francese della fine ‘800.
In questa prospettiva va innanzi tutto sfatata la leggenda del Céline anarchico. A parte il suo pessimismo, che lo allontana dall’anarchismo, egli è abbastanza chiaramente un tradizionalista. Proprio il contrario dell’anarchico che agogna la società di liberi individui, senza stato e senza autorità alcuna. Egli, invece, ritenendo l’uomo incapace, per propria natura, di poter convivere pacificamente senza un ordine sociale, è consapevole della necessità di un principio di gerarchia e di una autorità che garantisca l’ordinato svolgimento della vita sociale. Non anarchico, quindi, ma anarca: uomo, padrone di sé, che sa vivere solo, che non accetta e contesta la società ma che ritiene necessarie per il vivere civile le sue strutture sociali. In definitiva un conservatore.
Cosa poco nota è che lo stesso Céline ci ricorda il suo fondo politico-ideologico. In uno dei suoi scritti sociali (raccolti ed editi in Italia nel 1993 a cura di Giuseppe Leuzzi dalla Shakespeare and Company sotto il titolo I sotto Uomini), e precisamente ne Le assicurazioni sociali e una politica economica della sanità pubblica, pubblicato nel 1928, denuncia come la vera insidia per la società francese individualista fosse rappresentata non tanto dal socialismo velletariamente rivoluzionario, ma da quello minimalista, che con le nazionalizzazioni e le riforme avrebbe potuto subdolamente trasformare la democrazia francese in un collettivismo di fatto (non dimentichiamo cosa in quegli anni sta avvenendo in URSS). Afferma, quindi, che solo un nuovo conservatorismo avrebbe potuto contrastare questo pericolo: “A questo fine, ci è sembrato che è al metodo disraeliano di neoconservatorismo che bisognerebbe ricorrere, quello che consiste nel non opporsi ai programmi audaci della sinistra socializzante, ma che, al contrario, si adopera a sopravanzarli, a portarsi con decisione molto al di là delle rivendicazioni collettiviste, per ricavare da queste stesse riforme tutto quello che è necessario per consolidare l’ordine stabilito”.
Ritenendo quindi il vecchio conservatorismo votato “a un immobilismo brontolone” perché incapace di opporsi efficacemente al socialismo, validamente sostenuto da una politica di riforme, auspica la nascita di un nuovo conservatorismo, dinamico, attivo, propositivo. Ed indica a modello quello di Benjamin Disraeli, ebreo inglese di origine italiana, che si ispirò per la sua politica ( fu leader dei conservatori britannici dal 1852 al 1880 e più volte primo ministro) ad un conservatorismo rinnovato, sociale, attento alle esigenze popolari ed in contrasto con le tendenze meramente utilitaristiche dei liberali e dei liberisti.