La storia non si fa con i “se”, e tanto meno l’economia. Però viene istintivo domandarsi che strada avrebbero preso l’industria e il capitalismo italiano se le cose fossero andate diversamente. Se ad esempio Mattei non avesse perso la vita (qualcuno dice ucciso) nell’incidente aereo di Bascapè, nell’ottobre del 1962. E magari se il 27 febbraio del 1960, esattamente cinquantatré anni fa, Adriano Olivetti non fosse morto su un treno diretto in Svizzera.
Venne colpito da un infarto fulminante e così si concluse prematuramente la parabola terrena di uno dei più eclettici, visionari e geniali imprenditori che l’Italia abbia mai avuto. Al momento della sua morte la grande azienda metalmeccanica che portava il nome di famiglia aveva circa 36 mila dipendenti, di cui la metà all’estero, era all’avanguardia a livello internazionale nel settore delle macchine per ufficio e stava sviluppando ricerche nel campo dell’informatica quando ancora Silicon Valley era una sperduta località di campagna della California..
Nato a Ivrea nel 1901 da una famiglia di industriali ebrei (ma la madre era valdese), Adriano si laurea in ingegneria chimica al Politecnico di Torino, compie un viaggio di studi negli Stati Uniti ed entra a 25 anni nell’azienda paterna, cominciando con un periodo di apprendistato come operaio, secondo l’usanza di famiglia. Nel 1933 diventa direttore generale della società Olivetti e nel 1938 presidente. Nel frattempo Adriano si era sposato con Paola Levi, trasferendosi a vivere a Milano per evadere dalla realtà angusta della piccola città di provincia. Ed è proprio nella capitale meneghina che si avvicina agli ambienti dell’architettura, dell’urbanistica e della sociologia che tanto peso avranno nella sua attività di imprenditore e mecenate.
A questo punto occorre aprire una parentesi: Olivetti e il fascismo. Un rapporto non sempre chiaro, spesso rimasto sottotraccia. Fin dall’inizio la famiglia Olivetti simpatizza poco con il nascente movimento mussoliniano: il padre, Camillo, è un moderato con tendenze risorgimentali e dopo Caporetto lo stesso Adriano, giovanissimo, si arruola volontario per spirito patriottico. Tuttavia negli Anni Venti il cuore degli Olivetti batte più verso sinistra. Nel ’26 Adriano, con la famiglia della moglie, aiuterà il leader socialista Filippo Turati ad andare in esilio in Francia. Le indagini di polizia sulla fuga di Turati lambirono la famiglia Olivetti, ma non andarono più in là. Incuria investigativa o protezioni dall’alto?
Adriano era infatti entrato in contatto con gli ambienti cosiddetti “revisionisti” del fascismo torinese, che facevano riferimento a Mario Gioda (sansepolcrista, sindacalista, giornalista e deputato molto influente) e Massimo Rocca (giornalista a L’Avanti diretto da Mussolini e poi al Popolo d’Italia); ed era anche in ottimi rapporti con Giuseppe Bottai. L’omicidio Matteotti e la prematura scomparsa di Gioda, tuttavia, allontanarono Adriano Olivetti dal regime per tutti gli Anni Venti. Un riavvicinamento avverrà solo nel decennio successivo, i cosiddetti “anni del consenso”. L’ingegnere è ormai a capo dell’azienda, ma al tempo stesso amplia i suoi interessi anche al di là delle semplici logiche imprenditoriali. Si interessa di urbanistica e architettura, comincia a pensare a un’industria che sia più inserita nel territorio e nel tessuto sociale in cui opera. Un’azienda che abbia un ruolo sociale, insomma.
L’incontro con gli architetti Luigi Figini e Gino Pollini, punta di diamante del razionalismo sostenuto da Mussolini, segnò una svolta importante. Gli architetti erano in contatto con Le Corbusier (pure lui, per un certo periodo, fu estimatore del Duce) e stimolarono l’immaginazione già fervida dell’ingegnere. Furono Figini e Pollini gli artefici della nuova sede Olivetti di Ivrea; nonché gli estensori, con lo stesso Adriano, del Piano per la provincia di Aosta (di cui Ivrea faceva parte in quegli anni), un progetto urbanistico all’avanguardia. In quel periodo, secondo il libro di Valerio Ochetto “Adriano Olivetti”, pubblicato da Mondadori, l’ingegnere si iscrisse al Pnf e venne ricevuto da Mussolini, al quale presentò il suo piano durante un incontro a Palazzo Venezia.
Ma è nel Dopoguerra che il progetto di Adriano Olivetti si può sviluppare appieno. Nel ’48 fonda il Movimento Comunità, una via di mezzo fra partito politico, centro studi e laboratorio sociale, e a partire dagli Anni Cinquanta raggruppa intorno all’azienda di Ivrea una quantità straordinaria di intellettuali che operavano in differenti campi disciplinari, inseguendo il sogno di una sintesi creativa tra cultura tecnico-scientifica e cultura umanistica. In quel periodo Olivetti è anche sindaco di Ivrea e nel ’58 viene eletto deputato come rappresentante del Movimento.
Per qualcuno è un mecenate illuminato, l’industriale modello, un visionario dalle prodigiose intuizioni. Per altri è solo uno sterile sognatore, un utopista, al massimo un paternalista. Di sicuro è un personaggio scomodo, controverso, capace di rompere gli schemi. Che mal si adatta all’Italietta dogmatica divisa fra Dc e Pci, alla logica dei padroni contro gli operai.
Sul piano aziendale, la Olivetti veleggia verso gli obiettivi dell’eccellenza tecnologica, dell’innovazione e dell’apertura verso i mercati internazionali, dedicando particolare cura anche al design industriale e al miglioramento delle condizioni di vita dei dipendenti. Nel 1948 negli stabilimenti di Ivrea viene costituito il Consiglio di Gestione, per molti anni unico esempio in Italia di organismo paritetico con poteri consultivi di ordine generale sulla destinazione dei finanziamenti per i servizi sociali e l’assistenza. Nel 1956 l’Olivetti riduce l’orario di lavoro da 48 a 45 ore settimanali, a parità di salario, in anticipo sui contratti nazionali di lavoro. Si costruiscono quartieri per i dipendenti, colonie marine e alpine per i figli, nuove sedi per i servizi sociali, la biblioteca, la mensa.
Al tempo stesso Olivetti non trascura la ricerca: nel 1952 negli USA un laboratorio di ricerche sui calcolatori elettronici; nel 1955 viene costituito il Laboratorio di ricerche elettroniche a Pisa; nel 1957 fonda con Telettra la Società Generale Semiconduttori e nel 1959 introduce sul mercato l’Elea 9003, il primo calcolatore elettronico italiano. Nessuno può dire dove sarebbe arrivata la grande industria di Ivrea se Adriano Olivetti non fosse morto così giovane, su quel treno per Losanna. Però chiunque può vedere, a cinquant’anni di distanza, qual è stata la triste fine di quell’esperienza che non fu solo e semplicemente industriale: dopo essere sopravvissuta al suo presidente ancora per una ventina d’anni, l’azienda è stata via via depauperata, ridotta e frazionata, passando in mani imprenditoriali sempre più incerte, per usare un eufemismo. Grillo direbbe che è stata distrutta dopo l’arrivo dell’ingegner De Benedetti, tessera numero 1 del Partito democratico.
A cinquant’anni dalla sua morte, del progetto visionario ma non utopico di Adriano Olivetti restano solo la storia di una grande azienda e un’idea di sviluppo umano e sociale che l’Italia del precariato, degli esodati e dei call-center sembra aver completamente dimenticato.