È passato quasi un anno dalla scomparsa del filosofo Costanzo Preve, commemorato nell’ateneo di Torino con una giornata di studi dal titolo “La passione durevole”.
Un omaggio per molti versi sorprendente, da parte di una comunità accademica che aveva a lungo isolato in vita, quando non osteggiato, il grande studioso ed interprete del pensiero di Marx. Preve è stato infatti – mutuando l’espressione con cui Marco Tarchi definì i reduci del fascismo – un autentico “esule in patria” della filosofia, sia negli ambienti della sinistra che in quelli dell’intellettualità torinese.
Un “pensatore della solitudine”, secondo la definizione che ne dà Riccardo Bellofiore: “Contro Abbagnano e contro Bobbio, contro l’operaismo torinese e i sessantottini, Preve ha prima patito e poi rivendicato questa solitudine”, frutto del suo essere artefice di un pensiero “non fuori luogo, in quanto comunque legato a Torino, ma senz’altro fuori tempo, poiché puramente filosofico”.
Sull’”inattualità” della sua traiettoria intellettuale concorda Diego Fusaro, il più “previano” tra i filosofi accademici: “Nei primi anni Novanta, anziché tentare la via di fuga tipica di certo pentitismo marxista, Preve si preoccupa di porre rimedio a quello che considera il limite teorico del comunismo, cioè l’assenza di fondazione filosofica”.
Di qui scaturisce la rinnovata insistenza sul legame tra Hegel e Marx, ma anche una più profonda critica degli sviluppi teorici successivi: “Negli anni Duemila, Preve rinuncia all’idea di rifondare il marxismo e vi prende anzi congedo, senza tuttavia distanziarsi da Marx”. È la presa d’atto della necessità di una nuova filosofia politica, di “un comunitarismo inteso come correzione democratica del comunismo, e perciò distinto da quello di Taylor o MacIntyre, che Preve considera una versione morbida del capitalismo”.
Fondamentale, nell’ultima fase della sua biografia, l’incontro insieme umano ed intellettuale con Alain de Benoist, di cui Alessandro Monchietto ripercorre le tappe: nel 1982, il professore torinese è tra i relatori del convegno su “Nuova Destra e cultura reazionaria” organizzato dall’Istituto Storico della Resistenza di Cuneo. In quella sede ribadisce la convinzione che il discrimine tra destra e sinistra debba più che mai essere tenuto fermo “come una bussola” nell’orizzonte politico.
Saranno la casualità delle circostanze e la curiosità personale a favorire, a distanza di anni, il suo progressivo avvicinarsi all’ispiratore della ex Nouvelle Droite francese, anch’egli “giunto, pur provenendo da un percorso diverso, ad intuire che lo spartiacque tra destra e sinistra non rappresenta ormai nulla più di un residuo incapacitante, utile a perpetuare un conflitto puramente simbolico”.
“Sfortunatamente” nota ancora Monchietto “la sola critica che emerge rispetto al dibattito tra de Benoist e Preve è di ordine morale”, legata cioè all’inopportunità di un confronto tanto scandaloso. Dal canto suo, l’ex militante comunista rifiuta apertamente “il tabù dell’impurità, l’idea di una diversità ontologica tra le persone”, nella convinzione che “ad un viaggiatore si debba chiedere dove va, non da dove viene”.
Questo non significa che la ricerca di nuove sintesi di pensiero, comune ad entrambi i filosofi pur con accenti diversi, si sia mai tradotta nell’auspicio di “fusioni a freddo tra gruppetti di sbandati o improbabili convergenze rossobrune”.
La profonda critica che il teorico del comunitarismo muove alla dicotomia destra/sinistra, e ai vari tentativi di attualizzarla, parte dall’idea che la sensibilità socialista abbia radici più vaste rispetto alla categoria della “sinistra” e si configuri, fin dagli inizi del XIX secolo, come una forma di contestazione nei confronti della modernità e dell’individualismo.
I concetti di destra e sinistra, diversamente dai valori metastorici di libertà ed eguaglianza a cui Bobbio pretende di ancorarli, hanno secondo Preve un carattere delimitato nel tempo, racchiuso all’incirca nel periodo che va dal tardo Ottocento (con la parlamentarizzazione della Seconda Internazionale, il diffondersi del marxismo e il caso Dreyfus) fino al crollo del comunismo reale nel 1989-1991.
Dalla critica del “sessantottismo” al complesso rapporto con la religione, dalla condanna dell’interventismo umanitario in politica estera alla visione “sacerdotale” della filosofia, sono numerosi i temi della riflessione previana che i relatori hanno affrontato nel corso del convegno, senza risparmiare contestazioni anche aspre. C’è da credere che al vecchio professore di liceo, amante delle polemiche vivaci purché condotte con intelligenza, la cosa avrebbe fatto piacere.
Di Costanzo Preve, riconosce Bellofiore, sopravvivono “la passione pedagogica, la voracità intellettuale, l’abitudine alla rimessa in discussione dei maestri e anche di se stesso”. Qualità che hanno contribuito al formarsi, attorno alla sua persona e alle sue idee, di un piccolo cenacolo di giovani allievi, tra cui figurano i curatori del volume-omaggio collettivo “Invito allo straniamento. Costanzo Preve filosofo” (Petite Plaisance, Pistoia 2014).
Segno che l’”inattualità” dell’autore potrà forse sopravvivere a molte mode filosofiche maggiormente in voga, assecondando il detto di Franz Grillparzer tante volte citato dallo stesso Preve: “Se il mio tempo mi vuole avversare, lo lascio fare tranquillamente. Io vengo da altri tempi, e in altri spero di andare”.