Da quando Giampaolo Pansa ha reso noto al grande pubblico “il sangue dei vinti” versato impunemente dai partigiani rossi nel tragico biennio ’44-’45, molte storie sono affiorate. Dalla Storia con la S maiuscola ci si può focalizzare su vicende individuali, tragedie meno note ma non meno significative del clima dell’epoca. Il quadro è sempre più chiaro, si scopre che dietro le motivazioni omicide dei vincitori si nascondevano spesso meno nobili questioni di semplice odio personale e famigliare, invidie, rancori. Nell’anarchia piombata sulla Penisola mentre tedeschi e fascisti si ritiravano al Nord e gli Alleati avanzavano, ci fu chi approfittò per saldare conti che poco avevano a che fare con la Liberazione. In una di queste storie si è imbattuto il magistrato Nicola Marini, e ne è rimasto così colpito da voler riaprire un’inchiesta a quasi settant’anni dai fatti e poi testimoniare il tutto con un libro: Una foto un delitto. Il caso di Walter Cimino (scritto in collaborazione con i colleghi Paride Minervini e Carlo Brandini) pubblicato da Cantagalli. Le circostanze che portarono Marini ad interessarsi di questa storia hanno qualcosa di sorprendente, almeno così appare leggendo il libro inchiesta al quale non mancano felici toni romanzeschi e le giuste qualità per diventare un lungometraggio. Tutto parte da una foto, trovata dal magistrato in una vecchia autorimessa e poi lasciata per più di vent’anni in cantina. In un pomeriggio piovoso Marini la recupera per caso, si sveglia in lui la curiosità per quella foto di gruppo della Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale di Siena. Chiama un suo amico esperto in uniformi per saperne di più e da questi scopre che nella storia senese di quei giorni c’è un fattaccio poco chiaro. Si tratta della morte di Walter Cimino, appena diciassettenne nel 1944, rapito, imprigionato, torturato, deturpato in volto con una grattugia e poi finito con una pallottola in testa da un boia comunista dei Gap. Eppure, Cimino non si interessava di politica, non era iscritto al Partito, per vocazione famigliare era entrato nella X Mas, precisamente nel battaglione Barbarigo sotto le cui insegne aveva combattuto sulla spiaggia di Nettuno contrastando l’avanzata degli Alleati e riportando sei ferite. Era innocuo, il giovane Cimino, aveva fatto ritorno a Siena per riabbracciare la fidanzata. Come spiegare tanta ferocia, tanta rabbia? In mesi di indagini Marini e colleghi scoprono molte cose, restituendo dignità al giovane giustiziato ma non potendo processare gli aguzzini già defunti.
Bisogna tornare alla Siena di allora, città “ospedaliera” e dunque quasi porto franco, dove i tedeschi si ritirano senza commettere atrocità e lo stesso Comitato di Liberazione Nazionale non vuole forzare la mano nell’attesa degli Alleati. Però, le forze dell’ordine regolari hanno abbandonato la città e si è costituito un gruppo di volontari con compiti di polizia. Fra questi tutori della legge improvvisati vi sono però individui poco controllabili, che sequestrano e uccidono, regolano conti personali. Forte è la contrarietà del Cln, ma invece c’è più di un legame con i gappisti fiorentini, abili con la pistola e con meno scrupoli morali nell’uccidere “nemici del popolo”. È fra le file di questa polizia improvvisata che vanno cercati i torturatori del giovane Cimino: lo sequestrarono in pieno giorno nel pressi di Piazza del Campo, lo rinchiusero nella cantina di una locanda gestita dal fratello di uno di loro, lo picchiarono selvaggiamente, gli rovinarono la faccia con una grattugia. Ma l’arrivo di Francesi ed Anglo-americani poteva diventare un problema, avrebbero trovato quel cadavere in una cantina, aperto un’inchiesta. Cimino non doveva morire lì, per agonia. Meglio chiedere aiuto al boia gappista, facendo credere ai vertici comunisti di Firenze che il marò era un potenziale cecchino, un futuro nemico. Allora Cimino fu trasportato nottetempo alla periferia Sud di Siena e finito con un colpo di pistola. Anche il luogo scelto per l’esecuzione aveva una sua logica: tutti avrebbero pensato che autori dell’omicidio fossero i soldati marocchini, avanguardia alleata nota per la sua ferocia, in arrivo proprio da Sud. Ma il cadavere venne trovato prima dell’arrivo dei magrebini, si aprì un’inchiesta che naufragò nel nulla. Fino alla sua testarda riapertura voluta da Marini. E il movente? Perché Cimino subì tutto ciò, se non c’erano motivazioni politiche? Forse perché era un bravo ragazzo, stimato da tutti, con una bella fidanzata. Invidia, dunque: qualcosa di molto più antico della contrapposizione fra comunisti e fascisti.
* pubblicato in versione ridotta su Il Giornale