A quanto pare una nuova religione, laica ma con un suo corollario di dogmi, ha soppiantato tutte le altre. Oggigiorno, vi sono, infatti, «Verità storiche» che non possono esser messe in discussione, pena l’infamante accusa di revisionismo. Si assiste a una sclerotizzazione dell’interpretazione storica, che viene affidata, anziché agli storici e al loro lavoro critico, a leggi dello Stato che ne impongono quella più consona agli interessi di quest’ultimo, secondo un’ottica del “particulare”. Una normazione, questa, che non riguarda esclusivamente l’ambito storico, ma che si estende ad altri campi dello scibile umano: tra cui, quello linguistico.
E proprio sulla lingua è incentrato l’ultimo pamphlet dell’intellettuale francese Richard Millet. Intitolato Lingua fantasma (Liberilibri), quello di Millet è un saggio decisamente controcorrente che, per la sua carica demistificatrice nei confronti di particolari dogmi «certificati», ha attirato sul suo autore diverse critiche; soprattutto, in patria.
Il “livellamento verso il basso” che contraddistingue gran parte della cultura occidentale contemporanea ha intaccato la lingua stessa. E’ questa la tesi di fondo del saggio di Millet. Una lingua, quella francese, che ha subito un graduale impoverimento, vuoi per il multiculturalismo, vuoi per scarsa integrazione o – ancora – per il tanto decantato «meticciaggio», fino a ridursi a mero balbettio paratattico, privo di sfumature e di valide strutture sintattico-grammaticali. La lingua raffinatissima di Montaigne e di Proust è stata declassata ad argot, a slang, sulla scia con tutta evidenza della trasformazione subìta dalla lingua inglese nei multietnici sobborghi urbani e per mezzo di quel processo di internazionalizzazione che l’ha “eletta” a lingua del commercio. Un degrado, quello della lingua francese, che ha contaminato anche la letteratura, il romanzo e lo stile.
L’argomentazione di Millet si sviluppa, curiosamente, a partire da una osservazione/riflessione sul nuovo look del “nostro” Umberto Eco: il mondo letterario – ormai ribattezzato dallo Spettacolo «scena letteraria» – non si è accorto che l’illustre semiologo si è «rasato la barba» e ha tenuto «in cambio» solo un «misero mustaccio», che gli conferisce un’aria più da notaio di provincia che da semiologo.
La «variazione della pelosità» di Eco rappresenta per Millet un buon indice antropologico, se si considera che, assieme alla propria, il dotto semiologo ha «rifatto la barba» anche al suo best seller più celebre Il nome della rosa (peraltro definito da Millet «barboso»). Quella appena licenziata è una versione «ammodernata», cioè sfoltita di tutto quell’apparato di citazioni latine e di digressioni filosofiche che costituiva l’unico motivo di interesse di una narrazione altrimenti bozzettistica e lineare e che conferiva «un carattere o un’apparenza letteraria a un romanzo che nella migliore delle ipotesi potremmo definire popolare e, nella peggiore, appartenente alla categoria del best-seller internazionale». Quel che è salvo è invece l’intreccio: cioè quanto del romanzo è di più immediata comprensione, in linea dunque con la sotto-produzione «storico-occultista anglosassone firmata Dan Brown e compagni».
Per Millet, tale svilimento della pagina letteraria, operato da Eco, costituisce la cifra della letteratura contemporanea, che è stata ridotta sostanzialmente a mero intrattenimento al pari di un videogioco o di un blockbuster hollywoodiano, mediante quella che egli chiama «sacralizzazione del ludico». La letteratura secondo lo studioso francese ha subito un processo di democratizzazione della lingua («un’unificazione dal basso, se non verso le fogne del linguaggio») ed uno di laicizzazione della «trascendenza» che ha trasformato l’idea stessa di letteratura da «esperienza interiore» a puro entertainment («una regressione dell’oggetto letterario verso la tecnologia del divertimento»). Quella che il romanzo di Eco rappresenta “archetipicamente” è una letteratura essenzialmente oleografica, puramente emotiva, priva di accensioni linguistiche e contenutisticamente povera. Nella nostra epoca il romanzo è infatti scaduto a «luogo di distruzione della lingua» e quindi di «pauperizzazione della letteratura».
La revisione apportata da Eco al proprio romanzo è soprattutto indice di una (revisione) ancor più rilevante e decisamente più seria: quella «politico-letteraria» del vocabolario approntata dall’Occidente democratico. Una revisione strettamente legata alla nuova religione laica di impronta «umanitario-calvinista» dei “Diritti dell’uomo” che pretende di soppiantare i costumi e i «vecchi idoli» cristiani e si configura come una variante particolare di «religione di Stato»; una forma subdola di ideologia che agisce in maniera politicamente corretta e “democratica” al fine di demolire «molte più cose di quante si possa pensare», in primo luogo la lingua che «costituisce il legame più forte tra gli uomini». Il linguaggio propinato da questa nuova religione punta a mantenere «distinguo e differenziazioni» atti mascherare «gli scontri sessuali, etnici e religiosi», che infestano «il tessuto sociale europeo», con il nome di multiculturalismo. A monte di tale trasformazione culturale e segnatamente linguistica, quale inzio dell’«epilogo», Millet pone la «rivoluzione» sessantottesca, che egli interpreta quale rinuncia all’eredità della tradizione e nello specifico della lingua.
Il saggio è inoltre accompagnato dall’Elogio letterario di Anders Breivik, in cui Millet porta avanti la sua filippica contro il multiculturalismo e si sofferma sulla perdita di identità dell’Occidente, di cui lo scrittore francese eleva ad emblema il terrorista norvegese Anders Breivik, artefice degli attentati del 22 luglio 2011 a Oslo e Utøya.
* Lingua fantasma. Elogio letterario di Anders Breivik di Richard Millet, Liberilibri, 2014, pagg. 120, euro 15,00