Un dibattito si è aperto sulla stampa sull’ultimo libro di Luigi Nieddu, autore di numerosi saggi sul socialismo e su Antonio Gramsci, L’ombra di Mosca sulla tomba di Gramsci (Le Lettere ed., pagg. 223, euro 18,00). Un libro che affronta l’ultimo periodo di Gramsci ma analizza anche tutta la vulgata di sinistra sul pensatore sardo.
Professore, qual è lo scopo del suo libro? Fare chiarezza, opporsi alla vulgata comunista su Gramsci?
La mia ricerca si propone di verificare l’attendibilità delle ricostruzioni delle vicende di Gramsci, limitatamente al percorso di Antonio Gramsci all’interno della Terza Internazionale. Un’esauriente biografia del grande intellettuale sardo che prescinda da comprensibili esigenze di una certa parte politica, supportata da studiosi-accademici o meno – non esiste, e sarà possibile solo dopo che verrà alla luce tutto il materiale documentario ancora in possesso di chi predilige la comoda vulgata alla verità storica. Mi limito ad alcune conclusioni che, inaspettatamente, mi hanno creato problemi in relazione a radicate credenze della mia lunga militanza partitica. Gramsci è un gigante come pensatore e non lo si rimpicciolisce precisando che egli non fu il fondatore del Pcd’I, fondato, al pari di tanti altri partiti comunisti in quel dopoguerra, dalla Terza Internazionale guidata da Lenin, e da altri suoi stretti collaboratori. Se proprio si vuole indicare il padre nobile del Pcd’I bisogna pensare a Amadeo Bordiga. Gramsci, come pure Togliatti, hanno seguito il Congresso di Livorno del gennaio 1921 da Torino. A Livorno Bordiga, nel suo intervento, precisò che Gramsci sbagliava e lui lo correggeva. Nel neonato Pcd’I Gramsci è stato incluso solo nel Comitato centrale. Gli emissari di Lenin corteggiarono Gramsci per un anno per farne il capo partito mediante procedimenti non condivisi dal grande sardo. Al Terzo Esecutivo allargato della Terza Internazionale del giugno-luglio 1923 Gramsci veniva “accantonato” e il presidente Zinoviev lo accusava di doppiezza, di proclamarsi ligio alle direttive del nuovo corso a parole soltanto, ma di remare contro di fatto.
Ma Gramsci alla fine della sua vita era il comunista di sempre?
Non è accertabile se Gramsci fosse ancora il comunista di una volta alla fine della sua vita. Non è però da escludere che gli avvenimenti del 1935-1937 abbiano prodotto in lui profondi mutamenti. Fino al maggio 1935, data di ultimazione dei Quaderni del Carcere fino a ora disponibili, Gramsci era sicuramente un comunista della Terza Internazionale, come dimostrano i principi degli stessi quaderni per arrivare alla dittatura del proletariato in un paese industrializzato come l’Italia. Gramsci prende atto del nuovo contesto rispetto a quello russo del 1917, ritiene superato l’attacco frontale contro lo Stato borghese, indica la strada delle alleanze su temi anticapitalistici, punta a fare del Partito comunista prima il dirigente poi il dominante dello schieramento innovatore, quindi egemone. Una volta conquistata l’egemonia del Pcd’I sugli alleati Gramsci pensa al salto finale, anche con la forza, per instaurare il comunismo. L’egemonia, della quale tanto si è scritto e si scrive, non è il fine, ma il mezzo, l’anticamera della dittatura del proletariato. La lettera di Gramsci a Giulia del 27 febbraio del 1933 documenta una crisi profonda del suo autore, il quale si chiede se le sue scelte siano state giuste, o delle cantonate umane e politiche, ma quella crisi non ha portato al ripudio del comunismo e del marxismo.
Il 34° quaderno è sparito.
Il 34° quaderno, se venisse alla luce, potrebbe chiarire molti punti oscuri di Antonio Gramsci, al tempo ospite della lussuosa clinica romana ”Quisisana” (agosto 1935-27 aprile 1937). Per questo motivo ho chiamato il 38° quaderno “Quaderno della Quisisana”. Il 34° quaderno è sparito materialmente, ma non può essere stato distrutto, né da Togliatti né da qualche suo emissario. A mio avviso è ben custodito e non è da escludere che in un nuovo contesto generale possa venire alla luce. La sua esistenza è documentata dal fratello Carlo che è andato più volte alla “Quisisana”. Non è pensabile che Gramsci abbia avuto tra le mani tanti libri editi tra il 1935 e il 1937, giornali e riviste, elencate dalla polizia in quegli anni, e che sia rimasto insensibile a tanti fattori di cambiamento. Sappiamo per certo che Gramsci aveva condannato i processi di Mosca del 1936 che avevano decapitato i vertici dell’Internazionale dei tempi di Lenin e che non aveva creduto alle loro confessioni. Quei giudizi li aveva espressi nelle conversazioni con Piero Sraffa, e non è credibile che abbia evitato di annotarle in qual 30° quaderno, e che tali apprezzamenti non siano arrivati alle orecchie dei servizi sovietici.
La repressione del fascismo da una parte e quella dei sovietici dall’altra.
Gramsci è stato controllato dal fascismo come avversario politico, come potenziale mandante di crimini politici, e, per questo portato davanti al Tribunale speciale. Gramsci è stato soprattutto tenuto sotto osservazione dai servizi sovietici, direttamente e attraverso persone insospettabili, a cominciare dalle sorelle Schucht dopo il suo arrivo in Russia nel 1922. A loro fu affidato dal presidente dell’Internazionale Zinoviev, che lo avena inviato al sanatorio, dove si trovava Eugenia Schucht ricoverata e dove si recava la più giovane sorella Giulia per visitarla. A Mosca sono stati trovati i loro rapporti alla polizia sul presunto malarico Antonio Gramsci stordito dal chinino. L’esistenza di quelle spiate è fuori discussione anche se il loro contenuto non è disponibile. L’altra “parente” di Gramsci, Tatiana Schucht, lo ha spiato in Italia, prima e durante la sua carcerazione per i servizi sovietici (NKVD).
Una volta stabilito che il resoconto di Tatiana a Sraffia, del 12 maggio del 1927, non utilizzato da Togliatti che lo aveva a portata di mano, ignorato dai biografi compiacenti perché impresentabile, e volutamente falso e sicuramente concordato, è sorta spontanea la domanda sulle vere cause della morte di Gramsci, non documentate dal medico che ne ha constatato il decesso o da altri allegati al registro degli Atti di morte conservati al Comune di Roma e nell’archivio della Procura di quel Tribunale. L’incompletezza di quell’atto, la sosta della bara insepolta nel cimitero del Verano in attesa di sistemazione, la cremazione della salma dopo otto giorni, in assenza dei presupposti di legge, fecero pensare che dietro quel decesso ci fosse un fatto doloso o un crimine. La comparsa e la scomparsa di foto manipolate della salma, la scomparsa di ciocche di capelli dalla Casa Museo di Ghilarza. L’accertamento dell’eventuale ricorso al veleno sarebbe potuto avvenire solo dall’esame di quelle ciocche di capelli. Da ciò il convincimento che tale scomparsa sia stata determinata per decisione di chi tutto sapeva e temeva che venisse a galla una scomoda e compromettente verità nascosta per tanti anni. Il ricorso al veleno è attribuibile ai servizi sovietici e la sua somministrazione, con molta probabilità a Tatiana Schucht.