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Appuzzuni. Anna Maria Mabrito: “A 50 anni, ricomincio dalla terra e dalla mia Valle”

by Rosalinda Cappello
23 Febbraio 2013
in Scritti
0

annamariamabritoMentre la politica si perde in fumose questioni che poco hanno a che fare con la vita reale, occupata com’è in schermaglie e scandali – ultimi soltanto, in ordine di tempo, quello che ha coinvolto Giannino e l’altro relativo al presunto accordo sottobanco di non belligeranza tra Verdini e l’ex sindaco di Siena del Pd sulla Monte dei Paschi che dovrebbero condizionare e orientare l’elettorato da una parte o dall’altra – la gente, quella vera, tutti i giorni combatte la sua battaglia per vivere e si reinventa per farlo, pur con l’assillo delle bollette da pagare e dei soldi che scarseggiano perché il lavoro viene a mancare.

Gente come Anna Maria Mabrito che in un paio d’anni fa ha visto cambiare la sua vita. E non che lo avesse desiderato o pianificato, almeno non in questo modo. A cinquant’anni, si è trovata prima senza il marito, scomparso, e poi senza un lavoro, a causa della «maledetta crisi». Lei che lavora da quando di anni ne aveva diciannove. Lei che come tutta la popolazione della sua Valle, la Valchiusella, ha conosciuto la dura e alienante vita di fabbrica, quella che soprattutto dal secondo dopoguerra ha dato lavoro a quasi tutti nella zona di Ivrea, la fabbrica fondata da Camillo Olivetti alla fine dell’Ottocento e diventata una fiorente attività industriale con il figlio Adriano nella seconda metà del Novecento.

Ma lei, Anna Maria, come gli altri valligiani non ha mai perso il contatto con la sua terra – «la amo alla follia», racconta – e questa passione, anche per il vivere sano, oggi è il punto da cui ripartire. Perché ferma non ci sa stare ma, soprattutto, non vuole starci.

Riscopre la sua formazione passata, ha un diploma di agrotecnico, e si ricorda di una domanda che un commissario di Cuneo le fece durante l’esame di maturità: «Coltivate ancora la patata rossa qui?». Anna Maria la patata rossa l’aveva sentita solo nominare, consigliata a chi soffriva di patologie cardiache, non l’aveva mai mangiata e non sapeva se fosse ancora coltivata. Quella suggestione ritorna, dopo trent’anni, nel momento in cui si trova a dover ripartire.

Fa una ricerca sul territorio e scopre che una signora, tra le sue montagne, ancora la coltiva. Decide di rivolgersi alla scuola agraria del luogo e di coinvolgerla in un progetto che ne aumenti la produzione affinché la patata rossa possa essere fatta conoscere il più possibile, interessando in una fase successiva le Pro loco, i ristoranti e i b&b del territorio.

Nel corso di questa ricerca, riscopre altri prodotti della tradizione locale dimenticati e pensa di impegnarsi in un progetto che unifichi e coordini esperienze singole, per dare più forza e visibilità a una realtà frammentaria dove il campanilismo è ancora forte, come poi nel resto d’Italia.

«Voglio fare qualcosa per i miei luoghi», ripete mentre racconta la sua storia. Ha contattato alcune scuole per cercare di organizzare visite guidate nelle campagne dove la gente del posto, nonostante l’industrializzazione dei decenni precedenti, non ha mai abbandonato del tutto la vita contadina, dividendosi tra il lavoro in fabbrica e quello nei campi. C’è ancora tutta una generazione che ha qualcosa da raccontare ai giovani sulla terra in cui vivono. E questo potrebbe essere fatto con stage, campi di lavoro, visite guidate dove gli studenti possano apprendere per esperienza diretta la vita di campagna e tutto ciò che la riguarda. È un fiume in piena, Anna Maria: «Si potrebbero organizzare attività pomeridiane in cui gli studenti possano riscoprire il contatto diretto con la natura o corsi di orientamento in montagna, corsi di cayak, tiro con l’arco. Quante cose si potrebbero fare…». E per questo ha preso contatti con le popolazioni locali, dodici comuni con 4.500 abitanti in tutto, e con le istituzioni.

Per il 23 febbraio, ha organizzato un incontro a Vistrorio, la gente comincia a mostrare segnali di interesse per la questione, non vuole che la Valle venga abbandonata e muoia. «I giovani – racconta – tendono ad andarsene e si parla di chiudere le scuole. Invece, qui c’è tanto da fare e quelli della mia generazione stanno cominciando a capirlo. Fino a dieci anni fa penso che non mi avrebbero dato ascolto. E se adesso i giovani sono poco interessati, quando avremo raggiunto i primi risultati, quelli di ripristinare su più vasta scala la coltivazione della patata rossa e di altri prodotti, poi toccherà a loro, impegnati nelle Pro loco, far conoscere tutto questo e organizzare manifestazioni e iniziative dei supporto».

«Qui si mangia bene – continua – si respira aria pulita, è possibile il relax. Mi piace dire che non abbiamo nulla, ma quel nulla ha un valore altissimo». Come darle torto.

Ci lascia così. «Mi dispiace per quelli che scelgono di andarsene, che lasciano l’Italia. È un patrimonio sprecato che non tornerà mai. Mi auguro, invece, che sempre più persone scelgano di dare il proprio contributo, ciascuno come può. Bisogna essere attivi, propositivi. Proporre idee e cercare di concretizzarle. Io non mi fermerò, almeno non fino a quando non sarò riuscita a coinvolgere il numero maggiore di persone in questo tentativo di lavorare tutti insieme, in sinergia, per un progetto unitario, quello di recuperare il ricco patrimonio di tradizioni e di meraviglie che abbiamo ma che i piccoli campanilismi contribuiscono a disperdere. Tutto questo, al contrario, riguarda l’interesse comune e tutti ne potrebbero beneficiare».

Rosalinda Cappello

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