Quanta paura in giro, nell’imminenza dei risultati elettorali! E gli avvocati non fanno eccezione, anzi. La diffusione dei mezzi di comunicazione (i famigerati media – parola che è soltanto il plurale di medium, vale a dire lo sciamano dei colloqui con l’al di là – che gli analfabeti di ritorno americanizzano leggendo “midia”) non ha prodotto, come si sarebbe potuto immaginare, razioni abbondanti di coraggio, ma, al contrario, ha reso tutti circospetti, sospettosi, pronti all’autodifesa e alla smentita: io non c’ero; se c’ero, dormivo; forse non ero nemmeno io.
Che pena. E’ bastato sfiorare argomenti (responsabilità dei magistrati e i due carceri di Antonio Gramsci) ritenuti totem – o tabù, secondo la nota summa divisio freudiana – per vederli tutti tramutati, da botoli ringhiosi e aggressivi a comando, in pudiche mammolette, compunte, contrite, e soprattutto reticenti.
Il ventisei di febbraio, comunque vada, ritroveranno verve, acume e arguzia. In soccorso dei vincitori, naturalmente.
Che (poche) donne – e che donne – si siano sottratte alla tentazione del silenzio ammorbante dei sepolcri imbiancati, non è una novità.
L’ho sperimentata, questa sensazione raggelante, in occasione delle elezioni del consiglio dell’ordine forense nel gennaio del 1990 (ieri l’altro, praticamente); era andata male, dopo gli esordi favorevoli della settimana precedente e i ricompattamenti frettolosi – e involontariamente comici – degli ambienti governati dall’allora partito comunista (che proprio qualche giorno dopo cambierà nome) e dai mammasantissima dei grandi studi e della massoneria barese; con tanto di manifesti, uno rosso (il colore dell’amore, della rivolta sociale e della vergogna) e uno verde-loggia (il colore degli umori biliari e dei “33” con compasso e grembiulino, secondo tradizione). A quei manifesti, grondanti allusioni senza nomi e miseria morale senza ritegno, avevo risposto con l’arma che ti libera ed esalta il poco bene che forse c’è in te: il silenzio sprezzante dei giorni migliori, dell’OK Corral con l’esistenza.
Nelle ore immediatamente successive alla proclamazione dei risultati, il telefono tacque. Un solo essere umano, compagno di lista non eletto, si fece vivo, per dire che comprendeva l’amarezza per l’aggressione spudorata e blindata che avevo subito, e che “si stringeva a me”; ringraziai, commosso dall’inattesa chiamata e dalle espressioni affettuose, non giustificate dal grado di conoscenza.
Quel “compagno”, lo era davvero, e aveva il padre funzionario della federazione barese di Rifondazione comunista.
Quel “compagno” era una donna.
Giovane e bellissima, come il coraggio e gli occhi limpidi; come il rispetto della parola data e il disprezzo del conformismo sempre in agguato.
Come l’onore, che non tollera aggettivi.
E che riposa più agevolmente in un cuore di donna.
Perché, se in italiano le chiamiamo “donne” (dominae, signore e padrone della realtà, e succubi di niente e di nessuno), una ragione ci deve pur essere.