Fa ridere la dichiarazione del produttore Valsecchi di voler fare un film sull’uccisione di Yara. Ogni giorno, giornali e tv scrivono la fiction di una vicenda giudiziaria ancora aperta. Oggi, per esempio, la perla la trovate su Repubblica. Il giornale democratico e di sinistra pubblica il verbale del principale interrogatorio a Massimo Bossetti, accusato di aver ucciso la ragazza di Brembate. Un atto che dovrebbe restare segreto viene sbattuto in pagina, con tanto di titolo scabroso per attizzare gli animi e anche altro: “Guardavo siti porno con mia moglie, ma non ho mai cercato video con i minorenni”. La vita dell’indagato, ma ancora presunto innocente, vale zero. Così come vale zero la vita della sua famiglia e anche della ragazza che non c’è più. Perché rendere pubblico un verbale così importante, non solo non tutela la persona interessata, ma anche l’esito dell’inchiesta, che però sembra l’ultimo dei problemi della procura. Il vero obiettivo è dare visibilità al proprio lavoro, finire sui giornali, far arrestare qualcuno. Tutto fuorché far bene il proprio lavoro.
L’idea di fare un film su un fatto di cronaca risulta quindi vecchia, stantia. Da più di un decennio giornali e televisioni hanno sostituito il grande schermo costruendo in presa diretta la narrazione dei principali casi italiani. I fatti di sangue, le storie senza colpevole, gli ingredienti che mettono in scena le nostre paure hanno sempre destato interesse. Non è certo un elemento di novità. La novità è però che oggi tv e giornali (tutti) hanno fatto un passo in là: più che raccontare, processano; più che spiegare cosa sta accadendo, condannano; più che descrivere il lavoro degli inquirenti, lo condizionano. Mentre prima i giornalisti assistevano da osservatori, oggi sono parte integrante dei processi, a tal punto da poter dire che ne determinano l’esito. A partire da un assunto che capovolge il dettato costituzionale: si è colpevoli sino a prova contraria. La storia di Girolimoni,emblema di una vita rovinata da un’accusa poi rivelatasi infondata, è ormai archeologia. Il ricordo quasi commovente del tempo che fu, quando le ingiustizie facevano rumore. Oggi l’ingiustizia è la norma, Girolimoni non è il caso per eccellenza, ma un monito lontano in un Paese che ha stravolto lo Stato di diritto. Il salto verso questa, a quanto pare inarrestabile, tendenza si palesa nella sua ferocia nel delitto di Cogne, nel 2002. Un bambino viene trovato morto nella sua casa, con ancora indosso il pigiama. Il suo corpo è offeso da tanti piccoli tagli, che ne hanno provocato il decesso. La colpevole, senza ombra di dubbio, ha immediatamente un nome e cognome. Anna Maria Franzoni. La madre del bambino. Non vogliamo qui discutere su quanto fossero evidenti gli indizi, né infilarci nella discussione che non poteva essere che lei.
Ci interessa invece un altro passaggio: capire come si è arrivati a dare per scontate queste certezze, a cancellare il dubbio, la capacità di identificarci non solo con la vittima, ma anche con chi viene accusato di un delitto atroce. Ci interessa cioè capire perché abbiamo cancellato questa domanda dal nostro sistema cognitivo ed emotivo: «E se non fosse lei?». Non ponendoci questa domanda,abbiamo bypassato secoli di letteratura, di filosofia, di storia. Siamo diventati come i Ris che entrati nella casa di Cogne hanno cancellato gli indizi più importanti. Noi siamo entrati nel nostro bagaglio culturale e umano, lo abbiamo fatto a pezzi e ci siamo svegliati tutti più buoni, ma peggiori. L’assassino è sempre l’altro, il mostro, colui che detiene il potere del male. La società si è messa su un piedistallo da cui guardare e giudicare, sentendosi priva di responsabilità.
Arrivati a questo punto del ragionamento, lo so cosa state pensando. Ai plastici di Porta a Porta, a Chi l’ha visto?, a Quartogrado, a Pomeriggio Cinque. Avete sbagliato di grosso. Se il problema fossero solo queste trasmissioni, non ci sarebbe da preoccuparsi. Sarebbe molto facile tornare indietro, per ripristinare una cultura del dubbio e della pietas. No, non è così, perché il virus della ghigliottina ha colpito tutti. Dal Corriere e Repubblica ai principali Tg. Nessuno escluso. Fino a entrare nelle stanze del ministero dell’Interno con Angelino Alfano che, dopo la cattura di Bossetti, dà per scontato che sia lui l’assassino, anticipando ben tre gradi di giudizio e fregandosene della Costituzione.
Anche rispetto a questa diffusione del virus, c’è un caso emblematico. La scena del crimine è Garlasco. Dopo l’uccisione di Chiara, il paesino viene preso d’assalto. È estate, le notizie sono poche. Alberto Stasi è già diventato ”il colpevole”. Porta a porta non è ancora iniziato. Ma sui principali giornali si costruisce un romanzo con protagonisti e figuranti, tra cui le cugine di Chiara che si conquistano un ruolo di primo piano. I giornali le lanciano, le fanno diventare delle star. Quando però Fabrizio Corona, chiede loro di lavorare per la sua agenzia, la condanna è unanime: sta speculando su un omicidio. Ogni volta è così. Tutti ci sguazzano, tutti fanno grondare sangue a volontà, ma poi si sentono di dover accusare qualcun altro di aver superato il limite. Ma il limite lo abbiamo superato tutti. Le ricadute sono pesanti anche sui processi, fortemente condizionati dall’opinione pubblica. Amanda Knox ha dovuto fare i conti non con le prove degli inquirenti, non con la dinamica del delitto, ma con l’immagine da donna fatale, lei ragazzina, che giornali e tv le hanno cucito addosso e di cui, ancora oggi, non si è liberata. La hanno trattata da diva, per poi lamentarsi che si comportava da star. Non le hanno perdonato sguardi, magliette, il tono della voce, a volte considerato troppo emozionato, altre troppo spavaldo.
Su Amanda hanno fatto più di un film, l’ultimo di Winterbottom. Per fortuna però c’è anche la buona letteratura che resiste e ci aiuta un po’ a capire, non tanto cosa stia accadendo, ma cosa potrebbe accadere a ognuno di noi, se dovesse finire nello stesso tritacarne. Leggete, se non lo avete già fatto, Persecuzione, prima parte del dittico Il fuoco amico dei ricordi di Alessandro Piperno. Lo scrittore, che con questo romano ha vinto il premio Strega, parla della caduta agli inferi di un uomo. Il protagonista è un affermato professionista che viene accusato di pedofilia. Non è colpevole, ma tutto porta a credere che lo sia. Si lascia morire, come lo scarafaggio di Kafka, tornando al grado di zero di umanità che il nostro mondo ha dimenticato. Lo scarafaggio è la possibilità di identificarsi con chi soffre, con chi subisce una accusa ingiusta. Non perdiamo questa capacità, perché domani potrebbe accadere anche a noi.