17 febbraio 2013. Le immagini del cinema Astor di Agrigento si commentano da sole. È quasi vuoto. Ma c’è chi dice che mancasse ancora un bel po’ all’intervento di Gianfranco Fini, dell’ex segretario del Msi, ex leader di Alleanza nazionale e presidente uscente della Camera dei deputati. «Una cinquantina» di simpatizzanti in tutto per l’ex idolo dei ribelli dai trenta in giù – per alcuni lo è rimasto – che nulla avevano da dire alla sinistra di questo paese, ai quali la sinistra coi suoi impicci egemonici non era mai riuscita a parlare.
Una «cinquantina» che starebbe all’interno di una libreria in una qualsiasi periferia delle cento province. C’era un tempo – non dimentichiamolo, e se questa è nostalgia chi se ne frega – nel quale il delfino di Almirante parlava agli eletti, quelli contro l’arco costituzionale, contro il Caf e tutte le sigle che puzzavano d’imbroglio, di potere rancido di doppi-petti e scarpe da trecentomila l’una. Quello che andava in tivù a litigare con Luciano Lama, irriverente, tagliente come il maestro di Salsomaggiore. Che non era Adriano Romualdi né Andrea Emo ma chissà perché ti faceva pensare a loro. E all’Italia come poteva essere col tricolore sui balconi e “Giovinezza” fischiettata per le strade. Fini era un parlamentare, il Msi solo prima di Craxi una casa del demonio, i ribelli – quelli tostissimi – guardavano altrove, ma chissà perché quel tipo col viso scarno e il capello ordinato, il sorriso beffardo di chi vuol far sapere di saperla lunga, e (dai sì) tutto sommato elegantino prometteva bene. Bene in che senso? Semplicemente bene. Al primo posto il peso internazionale dell’Italia, poi la fantomatica meritocrazia e con essa il ritorno dei valori.
C’era una volta una “destra” – le virgolette sono d’obbligo, perché Giovanni Raboni quello del Novecento tutto a destra è morto da tempo, e certi articoli o commenti non sono replicabili – col suo leader-bravo-ragazzo (uno “stronzetto” dicevano i nemici, cioè i democratici: ce lo raccontiamo fra noi), quasi un poeta da Paradise Lost, che si divertiva a elencare i difetti di un’Italia figlia del Sessantotto e nipote della Resistenza. Quell’Italia che aveva ammazzato la (bella) politica prima e la società civile poi. E la “destra”? Quella che indossava i panni di Arlecchino? Ah già, quella sapeva fingere bene, come il suo leader: un corpo e tante anime.
Per Nanni Moretti, D’Alema non sapeva dire nulla «di sinistra»: troppe responsabilità forse. A destra invece tutti sapevano dire «qualcosa di destra». Come Accio Benassi, all’inizio della sua avventura in un’ossuta sezione del Msi. Contro gli ebrei, contro gli americani, i russi, i cinesi, i liberali, gli inglesi, i francesi, gli industriali e altre noiosissime cose come diceva il giovane Holden. Poi venne il Cav, che disse ahinoi che a Roma avrebbe votato Fini. A nessuno quel giorno del 1993 venne il magone: nessuno pensò che il Cav era un moderno uomo d’affari, spendaccione e di successo che se ne fregava della tradizione (con la t minuscola, figuriamoci con la T maiuscola), della spiritualità e delle filosofie orientali, delle SS e della morte dell’Europa. Non era Giovanni Agnelli – odiatissimo dalla maschia gioventù – ma qualcosa di più e di diverso. Lo sdoganamento dei fascisti – anzi ri-sdoganamento – dopo la condanna dei Sessanta – nasce e muore lì. E gli imbarazzi si centuplicano. Il leader-bravo-ragazzo s’accorge che la democrazia non è poi tanto male. I suoi accompagnatori pure. Alcuni fingono benissimo, altri fingono di fingere ma ne sono più convinti di lui. Unica traccia di un passato glorioso (ma sempre arlecchinesco), il sentirsi custodi di un merito pronto a infrangersi nella durissima legge del tengo famiglia. E sappilo: numerosa.
La “destra” è stata il potere e il potere lo ha gestito come tutti. Con le donnine e i frigoriferi pieni. Ma non lascerà traccia alcuna. La destra fuoco, fiamma e stivale infangato non s’è mai vista: è rimasta ai margini di una società liquida che miscela qualunque beveraggio. Anche quello puzzolente. Quella culturale, non dico di Raboni ma semplicemente di Veneziani e di tutti i suoi destrini da Spengler a Guareschi, passando per Longanesi e Montanelli, è diventata come i pensatori liberali delle nostre università. Un museo di madonne. Ci si è riempito entrambi gli occhi, ma poi si è fatto tutto il contrario: fra pretismi, comunismi e massonerie varie. Una “destra” è rimasta, quella di Pasolini. Non quella divina ma quella orribile: la “destra” di Salò.
Vogliamo pensare che le colpe – tutte le colpe – per il fallimento della “destra” siano dell’uomo chiamato Gianfranco? Vogliamo pensare che l’immagine della “destra” oggi, un’Armata Brancaleone di rozzi arraffatori, puttanieri e minchioni derivi solo dagli errori o dalle scelte di Fini? Accomodiamoci. Anzi accomodatevi prego, e continuate a farvi del male.