Tra una settimana esatta l’Italia avrà una maggioranza politica (difficile, ma si sa, che questa si traduca in una maggioranza di governo). Ciò significa che dopo un anno di sospensione tecnica, i partiti – incluso quello capitanato dal premier “ex” tecnico – dovrebbero riprendere le redini della scena pubblica. In queste ore fioccano sondaggi (sotto forma di “scommesse ippiche”, forza dei simboli si potrebbe dire) che, con le loro proiezioni, contribuiscono alla degenerazione di una campagna elettorale debole di contenuti e forte solo nei toni. E c’è il rischio che dalla parentesi tecnocratica si possa passare a una destra tra parentesi, assente o con una minuscola rappresentanza parlamentare.
Rispetto a questo è possibile azzardare anche alcune ipotesi, dato che le certezze non mancano. Tra quest’ultime di sicuro c’è che il Movimento Cinque Stelle entrerà prepotentemente in Parlamento. Sulla natura dei suoi eletti, sulla capacità di drenare l’inesperienza da parte del fondatore, ci sono tanti dubbi. Sono in tanti a scommettere sull’arrivo sì di un’iniezione – di certo salutare – di società civile nelle aule parlamentari. Ma in tanti scommettono anche sull’arrivo di un non meglio quantificabile fronte di novelli Scilipoti dalle fila dei grillino in direzione governativa. Staremo a vedere.
I sondaggi – anche gli ultimi malcelati – non hanno premiato la coalizione di Mario Monti. Se è vero che la sua lista è data tra il 9 e il 12%, ciò significa che il fronte dei “civici” rischia di arrivare quarto, dopo la sinistra, la destra e Grillo: se non è un flop poco ci manca. Anche per questo motivo la neolingua del “professore” si è arresa a utilizzare, in questi ultimi giorni, il canone linguistico della più prosaica campagna elettorale: proprio quello portato avanti da coloro i quali Monti ha definito «cialtroni». Se la lista del premier va male, disastrose sembrano le percentuali dei suoi alleati: Casini, prosciugato dal nuovismo dei montiani, terrà a stento la posizione. Mentre le immagini del teatro semivuoto davanti al quale Gianfranco Fini ha dovuto tenere un incontro elettorale, sembrano più di un presagio di disfatta per il leader di Fli. Ne riparleremo.
Pier Luigi Bersani da parte sua, maltrattato un giorno sì e l’altro da Mario Monti (che infatti oggi ha chiuso tatticamente ancora una volta, salvo smentirsi domani praticamente, le porte a un’alleanza post-voto con un centrosinistra che contempli Nichi Vendola), è colui il quale ha più da perdere da questa tornata elettorale. Passato l’effetto esaltante delle primarie, il segretario è stato costretto a gestire da un lato la rimonta del Cavaliere, dall’altra a smentire l’inevitabilità: il governo in coabitazione con i centristi. Per questo motivo – per esorcizzare gli spettri e in ricordo di un’autosufficienza dalle gambe corte in realtà – ha scelto di utilizzare la suggestione dell’usato sicuro: Romano Prodi sorridente dal palco di piazza del Duomo di Milano. Non proprio un talismano.
Tra una settimana, infine, avremo in dettaglio i risultati di questa destra politica in diaspora. Già, perché se Silvio Berlusconi, in ogni caso, canterà vittoria (e si siederà con ogni probabilità sul tavolo della contrattazione), tutta l’attenzione sarà riservata all’analisi di che cosa rimane della quota “nazionale” all’interno dell’alleanza. Da questo punto di vista – al netto dell’implosione dei transfughi finiani – ci sono stati alcuni segnali indicativi nella composizione delle liste del Pdl: riserva indiana per gli ex An. Mentre le altre liste di destra apparentate – secondo le rilevazioni – sono in bilico per il raggiungimento stesso del quorum minimo di coalizione. Da “esuli in patria”, insomma, gli uomini della destra potrebbero trasformarsi in esuli in Parlamento. Ma per il momento, è chiaro, questa è solo un’ipotesi.