Se n’è andato molti anni fa, Knut Hamsun. Era il 19 febbraio 1952 e lui, quasi centenario, aveva avuto la sorte di attraversare non solo due secoli, ma anche le contraddizioni della vita, di due mondi, della cultura europea. Aveva conosciuto la gloria del premio Nobel e l’infamia del carcere e del manicomio; la miseria e il successo. Era stato considerato autore modernissimo, precursore delle inquietudini metropolitane; ma al tempo stesso indissolubilmente legato alla tradizione ancestrale del suo Paese, la Norvegia. Fuori dal coro da sempre, Hamsun lo diventerà in modo palese negli ultimi anni della sua vita, respinto dalla cultura ufficiale e processato come collaborazionista per aver aderito, sia pure solo sul piano intellettuale, al Nasjonal Samling, il partito filo-nazista norvegese di Vidkun Quisling.
Knut Hamsun in realtà si chiamava Knud Pedersen e nacque a Vågå il 4 agosto del 1859, quarto figlio di un agricoltore che in seguito si trasferì in città per fare il sarto. Crebbe in povertà nel Nordland, al largo delle Isole Lofoten e al di là del Circolo Polare Artico, una patria da lui mai rinnegata e che sarà lo sfondo di tutta la sua immaginazione romanzesca. È una vita rurale, in un paesaggio formidabile, impressionante, unico, con gigantesche falesie, fiordi grandiosi e luci boreali. La sua infanzia sarà anche negativamente condizionata dalla frequentazione di uno zio pietista, duro, puritano, che detesta i giochi, anche quelli dei figli e picchia duro per farsi obbedire. In compenso con lui sperimenta quella vita itinerante e vagabonda che avrà tanta influenza nella sua opera letteraria.
Dai quindici ai diciassette anni, Hamsun gira per il Nord della Norvegia vendendo ogni tipo di mercanzia, come Edevart, personaggio del suo celebre romanzo I Vagabondi. Poi fa per qualche tempo il calzolaio e intanto scrive la sua prima opera: Misteri. Diventa una piccola celebrità locale, trova un posto da impiegato: nel 1879 scrive una seconda opera, Frida, che gli editori rifiutano. La speranza di diventare scrittore svanisce, ricomincia il vagabondaggio. Come un personaggio dei suoi libri successivi, il giovane Knut fa un po’ di tutto: sterratore, cantastorie, capomastro in una cava.
Nel 1882, a 23 anni, parte per l’America ma contrariamente alle sue aspettative oltreoceano l’attende una vita ancor più dura. Il futuro premio Nobel per la letteratura sarà di volta in volta guardiano di porci, impiegato di commercio, aiuto muratore, bigliettaio sui tram di Chicago e commerciante di legname. Deluso dall’esperienza americana, Hamsun torna in Europa e si stabilisce a Copenhagen, dove conduce una vita di stenti che gli ispirerà il primo dei suoi grandi successi, Fame. E’ il primo romanzo in cui Hamsun critica in modo evidente le storture della società borghese industriale, la civiltà urbana che sta meccanizzando ogni cosa, persino i rapporti fra gli esseri umani. Come scrive Robert Steuckers, per Hamsun essa «ha distrutto l’uomo totale, l’uomo intero, l’odalsbonde della tradizione scandinava. Essa ha distrutto i legami che uniscono ogni uomo totale agli elementi. Risultato: il contadino, strappato alla sua gleba e scagliato nelle città perde la sua dimensione cosmica, acquisisce sterili manie, i suoi nervi non sono più in comunione con l’immanenza cosmica e si agitano sterilmente».
Knut Hamsun continua a scrivere senza sosta, si lascia alle spalle un matrimonio fallito, si risposa, si trasferisce in una tenuta di campagna nel sud della Norvegia. Pubblica altri romanzi di successo: Pan, Sognatori, Sotto la stella d’autunno, Il risveglio della terra. Nel 1920 per quest’ultima opera gli viene attribuito il premio Nobel. Viene accostato a Dickens, a Ibsen o ancora a Gorkj, è considerato il più grande autore norvegese. Lui non ama il successo, si schermisce, continua a considerarsi un uomo fuori dal tempo. Anticonformista, indifferente agli onori, giunge al punto di fuggire di casa il giorno di un suo compleanno, per schivare la curiosità pubblica. Il suo gusto lo portava verso le piccole comunità rurali, tra le quali le isole Lofoten care alla sua infanzia.
Hamsun sarà sempre un antimoderno, di qui la sua avversione – descritta in molti romanzi – per la civiltà americana e anglosassone, considerata l’anticamera della società massificata che cancella ogni passato e ogni tradizione. Filo-tedesco sin dalla giovane età, lo scrittore vedrà nel nazionalsocialismo che si appresta a dominare l’Europa una via d’uscita dal capitalismo meccanicista e industriale, per cui alla fine degli Anni Trenta sosterrà il partito nazionalista di Quisling, diventato apertamente collaborazionista dopo l’invasione tedesca della Norvegia.
Una posizione che pagherà caro e che alla fine della guerra gli costerà un processo per tradimento. La novantenne gloria letteraria della nazione, ormai sordo e malato, finisce nel fango. E’ messo agli arresti, giudicato per i suoi scritti e poi internato in manicomio perché – esattamente come Ezra Pound – ritenuto pazzo. La democrazia occidentale non si rivela in questo molto dissimile dalla dittatura sovietica: il dissenso non è tollerato e viene ridotto a un problema psichiatrico. Ma Hamsun non è pazzo. Poco prima di morire, regala al mondo un ultimo capolavoro: Sui sentieri dove cresce l’erba, che è al tempo stesso autodifesa dalle accuse di tradimento e testamento spirituale.
Una parziale riabilitazione postuma arrivò nel 1978, quando l’autore danese Thorkild Hansen studiò gli atti giudiziari e scrisse Processo a Hamsun, un’opera accolta con grande clamore in Norvegia perché riteneva assurde e ingiustificate le accuse rivolte allo scrittore premio Nobel. Sulla base del libro di Hansen, nel 1996 il regista svedese Jan Troell realizzò un film, nel quale la figura controversa di Hamsun è stata interpretata dal grande attore Max Von Sydow.