(Pubblichiamo un estratto di “Attivisti”, libro di Antonio Pannullo tra i più interessanti pubblicati negli ultimi anni sulla galassia postfascista: è un contributo prezioso al dibattito sulle destre che fin dall’apertura portiamo avanti sul nostro giornale .***)
Questa è davvero una bella storia. Una storia di quegli anni, gli anni di piombo e di fuoco, che si è conclusa col lieto fine, a differenza della maggioranza di quelle storie. A ferragosto 2013 sono stati trent’anni che è entrato in convento. Parliamo di padre Attilio, oggi parroco in Calabria, servo di Maria, la cui casa madre è san Marcello al Corso. Ma si chiama Attilio Russo, e negli anni di cui parliamo era uno dei Volontari Nazionali, il servizio d’ordine del Msi creato da Alberto Rossi. E non era uno tenero. “Ah, lavori al Secolo?”, mi dice quando gli telefono. “Pensa che noi c’andavamo tutti i 1° maggio a fare la guardia, nel caso che i compagni attaccassero la redazione…”. Entriamo subito in sintonia. Ma Attilio Russo ha avuto diverse vite: attivista, frate, ma anche paracadutista e ultrà della Roma. “Accidenti, ho fatto 497 lanci, me ne mancano tre per arrivare a 500, ma non credo che li farò più ormai…”. Da piccolo abitava con la famiglia a via del Governo Vecchio, quindi una zona rossa per eccellenza, quei rossi ricchissimi e comunisti per moda, per posa, per convenienza. I Volontari, invece erano tutta gente di popolo, provenienti dalle borgate, non a caso le sezioni dei Volontari Nazionali erano, ad esempio, Tufello e Primavalle… “Sì, Primavalle me la ricordo distintamente, Virgilio Mattei era uno di noi, un Volontario. Ricordo che la sezione, dopo il rogo, rimase ancora aperta. Per principio”. Attilio ricorda bene l’atmosfera di odio cieco che c’era allora, persino il corteo funebre dei Mattei fu assaltato dai collettivi universitari, e ci furono degli scontri tra compagni e Volontari Nazionali. “Comunque le medie le feci al Virgilio, e il mio primo impatto con la politica fu a Valle Giulia, quando qualcuno più grande mi portò alla manifestazione. Come è noto, seguirono scontri con la polizia, io non capivo nulla di politica allora, non sapevo niente di Avanguardia Nazionale, del Msi, di Ordine Nuovo. Ricordo solo che le cariche, i lacrimogeni, le bastonate mi impressionarono molto. Dopo la manifestazione tornai di corsa a casa. Ma il mio destino era evidentemente segnato, nel 1968 entrai all’istituto Nautico, che allora stava al Ghetto, solo dopo si trasferì. Botte tutti i giorni. Nel 1969 entrai nei Volontari Nazionali di Alberto Rossi. Consideriamo che il Nautico era la scuola più nera di Roma, e forse d’Italia: su 600 studenti 350 erano attivisti, e quasi tutti di estrema destra. C’erano Ordine Nuovo, Avanguardia, la Giovane Italia…
A quei tempi, a ogni anniversario della strage di piazza Fontana, che i mass media e il regime incomprensibilmente attribuirono alla destra, le sinistre si scatenavano, autogiustificandosi anche con il fatto che ci fosse una campagna istituzionale per mettere il Msi fuorilegge. “Mi pare nel 1972, ci fu una grossa manifestazione dei compagni davanti al Nautico, che noi avevamo occupato da qualche giorno, ed è chiaro che questo non lo potevano sopportare. Insomma, vennero da tutte le scuole circostanti, dalla Fiat della Magliana, dalla vicina Ottica meccanica, tutti per cacciare noi. Ci asserragliammo nella scuola e iniziammo a tirarci di tutto con loro. Noi alle finestre e loro sotto, ma erano veramente tanti. Alla fine venne la polizia e liberò l’istituto. Ricordo una volta alla scuola dei cineoperatori tv, che era là vicino, noi andammo a dare volantini e i compagni ci aggredirono, nel parapiglia c’era anche il futuro sindaco di Roma Veltroni, che se non ricordo male un paio di schiaffi ce li prese pure lui…”.
Ma già da qualche anno Attilio frequentava i tifosi ultras della Roma, partecipando, nel 1967, alla fondazione del Commando curva sud, che solo negli anni successivi divenne Cucs. Quando mi hanno intervistato in tv, a i Fatti vostri, sulla mia attività da ultrà, sono riuscito a mettere la sciarpa giallorossa al collo di Massimo Giletti, che è una persona di spirito”. Il percorso umano di Attilio Russo per la verità ha sempre incuriosito i media, e lui non si è mai sottratto alle richieste di spiegazioni sulla sua vicenda umana e politica. Così, persino l’Espresso, da sempre rivista schierata a sinistra, nel 1999 lo intervistò e pubblicò l’articolo col titolo “Da estremista di destra a frate”, pubblicando anche foto di Attilio con i camerati di allora e dopo un lancio col paracadute.
Prima degli anni “duri”, quelli in cui comparvero le pistole e le bombe, i Volontari Nazionali, che già controllavano alcune sezioni romane, ne aprirono una tutta loro a piazza Lante, nel cuore di Tor Marancia, a Roma sud. Con i Volontari Attilio andava un po’ dappertutto, dove c’era bisogno. Così andò a Civitavecchia dietro ad Almirante, e allora c’era da vedersela coi portuali, a Reggio Calabria con Ciccio Franco, partecipò agli scontri di piazza Castello a Milano, a Napoli, dove capo indiscusso dei Volontari era Massimo Abbatangelo, e poi in tutta Roma: “Al Tufello presero le botte Cecchetti, che era della sezione, Graziano e Ulrico Roberto, altra figura leggendaria dell’attivismo romano”. Poi alla Garbatella, a Portonaccio “dove i compagni sparavano”, ad Anzio, a Centocelle, all’Eur. “All’Eur c’erano tra i Volontari i fratelli De Francisci, e poi, per un certo periodo, anche Massimino (Massimo Morsello, nda)”. E purtroppo si trovò anche a piazza Risorgimento quel giorno che uccisero Mantakas: “Ero proprio accanto a lui, lo vidi cadere colpito e mentre mi chinavo per sorreggerlo una pallottola mi sfiorò la testa: c’erano due che ci avevano preso per un tiro a segno. Mi ricordo che ci rifugiammo dentro il portone e poi riuscimmo dall’altra parte, quel giorno davvero rischiai la vita”. In questo periodo, dopo il diploma, fece diversi lavoretti, ma sempre continuando a fare politica a tempo pieno. Di Buontempo ha un ottimo ricordo: “Teodoro mi salvò dalla galera almeno un paio di volte”, ricorda. Poi nel 1975 andò a fare il militare e quando ritornò divenne il vicesegretario della sezione Acca Larenzia, ossia Tuscolano, che allora per fortuna non era famosa. Il segretario sezionale era quell’Ulrico Roberto di cui abbiamo parlato. E spesso, nel corso della stesura di questo libro, questo nome viene ricordato da qualcuno, e sempre in termini estremamente elogiativi: “Ulrico era una persona eccezionale – dice Attilio –. Era simpaticissimo, aveva la cadenza napoletana, era un autentico colosso, coraggioso, faceva l’operaio dell’Atac a piazza Tuscolo se ricordo bene, ma la sua caratteristica era la bontà: non potevi conoscerlo e non volergli bene, ecco, questa è la definizione giusta, era di una bontà che faceva paura, e ripensandoci oggi era strano che facesse politica a quel livello. Pur non essendo molto più grande di noi, lo chiamavamo papà, per dare un’idea di che tipo di rapporto avessimo con lui. Era stimato da tutti, anche dai capi, lui poteva contestare tutto, era sempre ascoltato”. Ma, anche se buono, un fascista allora era sempre un fascista, e così un giorno gli misero una bomba nella jeep, al Tuscolano, solo che evidentemente era dimostrativa, perché non lo uccise. Addirittura era stata messa in modo che esplodesse all’apertura dello sportello… roba da Eta. Ulrico è morto nel 2011, l’ultima volta padre Attilio lo vide all’ospedale Sant’Andrea di Roma. “Al Tuscolano l’attività era intensa, Ulrico si dava molto da fare. Con via Noto tra l’altro avevamo ovviamente un rapporto strettissimo”. A via Noto c’era un altro dei protagonisti dell’attivismo romano degli anni Settanta, un altro di quei “buoni maestri” dell’ambiente, Tonino Moi, di origine sarda, che abbiamo già incontrato nella cronologia. Bassino, mite, equilibrato, riflessivo, ma con una volontà di ferro, indomito. Proprio a Tonino Moi, anche lui prematuramente scomparso, è legato un bel ricordo di Attilio, ricordo però che risale a prima di Acca Larenzia, addirittura ai tempi in cui andava a scuola al Nautico. “Sapevamo che all’Augusto, che si trova vicinissimo a via Noto, i camerati avevano spesso dei problemi, poiché venivano i compagni da tutta Roma Sud, con la scusa di chiudere il covo fascista. Così un giorno andammo dal Nautico in parecchi, con le moto, i motorini, le vespe, qualche vecchia auto. Tonino e gli altri erano naturalmente in minoranza, e quando ci videro rimasero stupiti. Tonino mi disse: ‘Ma come, siete venuti dal Nautico solo per aiutarci’, e io gli dissi ‘certo, altrimenti non saremmo stati camerati’… Beh, quella volta a Tonino gli vennero i lucciconi agli occhi, si stupì per questo aiuto insperato e forse gli piacquero le parole che gli dissi, comunque io me lo ricordo così, grato a un suo fratello per l’aiuto, aiuto che poi lui aveva dato sempre e disinteressatamente a tutti quelli che glielo avevano chiesto”. “Ecco – continua padre Attilio – il punto è proprio questo: nessuno dei Volontari ha mai fatto carriera, perché eravamo tutti a disposizione del partito, pronti a sacrificarci per il partito. Come Tonino Moi ce ne furono molti altri tra noi, leader naturali che senza avere nulla in cambio evitarono che la nostra storia finisse in un bagno di sangue, perché erano responsabili e perché erano altruisti”. Difficile non concordare con lui: si deve a poche persone, oggi misconosciute, se in Italia e in particolare a Roma non scoppiò non diciamo una guerra civile ma almeno una guerriglia di vaste proporzioni, che comunque avrebbe potuto lasciare per terra centinaia di vittime dall’una e dall’altra sponda. Se da una parte, quella dei compagni, c’era odio totale, volontà di annullare fisicamente il nemico, di ucciderlo, e mentre al centro il protocollo antifascista esigeva che nessun esponente dell’arco costituzionale neanche partecipasse alle esequie dei giovani assassinati, dalla nostra parte c’era qualcuno che non solo voleva dialogare ma che capiva che occorreva tenere calmi i ragazzi, perché alla fine erano tanti, erano esasperati, erano convinti di avere ragione, erano coraggiosi. Se decine o centinaia di loro avessero preso le armi, si fossero organizzati, le cose sarebbero finite malissimo. Sarebbero morti tutti. Ho sentito con le mie orecchie, a via Noto, Tonino Moi, completamente distrutto emotivamente e fisicamente, dopo Acca Larenzia, fare appelli alla calma, cercare di spiegare anche ai più facinorosi che non dovevamo reagire, che dovevamo tenere la testa sulle spalle, altrimenti ci sarebbero state solo galera e morte. Se solo una piccolissima parte dei camerati di allora prese le armi lo si deve a quei “buoni maestri” che ci impedirono di prendere una strada senza ritorno. A sinistra questi buoni maestri non ci furono, o forse non furono ascoltati, vinsero i predicatori di odio, quelli delle Hazel 36 e della P38, fiancheggiati dai partiti antifascisti, con in testa la Democrazia Cristiana, che non vollero mai condannare i violenti né ascoltare gli appelli alla ragionevolezza lanciati dal Msi nelle sedi istituzionali e nelle piazze. Se avessero ascoltato, forse il terrorismo che insanguinò l’Italia per anni sarebbe stato fermato prima. Se Potere Operaio, Avanguardia Operaia, Lotta Continua, i vari collettivi, fossero stati monitorati e le loro intenzioni individuate in tempo, oggi non si dovrebbero piangere i fratelli Mattei, Ramelli, Zicchieri, i ragazzi di Acca Larenzia, Mancia e tutti gli altri, compresi Moro e le decine di altre persone assassinate dalle Brigate Rosse e dai loro epigoni. Ma con i se non si scrive né si fa la storia. Così facevano bene Buontempo e gli altri a perquisirci prima di andare alle manifestazioni. Tra i buoni maestri che ho conosciuto, certamente vanno ricordati Tony Augello, Riccardo Bragaglia, Egidio Sangue, Guido Morice, Gigi D’Addio, Ruggero Bianchi, Bruno Laganà, ragazzi – perché li vedo sempre ragazzi – coraggiosi e seguiti, ma che al momento giusto seppero essere responsabili e salvarci tutti da un’ecatombe.
Tornando a padre Attilio lui oggi non rinnega nulla, sia chiaro: “Dopo il 1976, però, qualcosa era cambiato: Almirante aveva aperto il partito a persone di una destra generica, patriottarda, retorica, persone che non ci piacevano, mentre i nostri ragazzi si battevano nelle strade per la loro sopravvivenza. Così in molti abbandonammo quel modo di fare politica, poi stavamo crescendo, io avevo cominciato a lavorare in un’agenzia di viaggi, ero fidanzato”. Però, pure avendo abbandonato l’attività politica, quel giorno di gennaio 1978 si ritrovarono tutti lì, su quel piazzale, anche se molti erano usciti dal partito: “Il cameratismo viene prima di tutto. Quel giorno mi ritrovai ad Acca Larenzia dopo il duplice omicidio, insieme a molti del Nautico, ed ero a poca distanza da Stefano Recchioni, vicino a me Bruno Di Luia e Francesca Mambro. E tutti gli altri”.
Ma proprio il lavoro nell’agenzia di viaggi ebbe forse un peso sulle scelte future di Attilio. Una volta, in Mali per lavoro, forse nel 1980 o giù di lì, vide dei bambini che litigavano ferocemente per contendersi il diritto di mangiare delle formiche, c’era la carestia… “Capii molte cose allora. In capo a qualche mese, presi la mia decisione. Piantai tutto, ma proprio tutto, e il 16 agosto mattina del 1983 entrai in convento. Ricordo che quell’anno la Roma aveva vinto lo scudetto”. Poi ha studiato per 11 anni, ha preso due lauree, ha girato per varie parrocchie in tutta Italia. Eppure non è cambiato, gli amici sono quelli degli anni di piombo, la pensa ancora come allora. “Credo che siamo cresciuti con un ideale troppo pulito, abbiamo sempre continuato a fidarci di tutti. Diciamo che eravamo ideologicamente puri ma avvelenati dall’arrivismo dei politici. Ghettizzati? Per come l’ho vissuta io certamente sì, era vero, c’era una discriminazione che quando non era aperta era strisciante, che forse è peggio. Con i comunisti non si poteva parlare, non volevano dialogare, avevano la verità rivelata in mano, tu non potevi neanche respirare. Per questo mi misi a fare politica probabilmente, mi domandavo perché ci dovevano trattare così, chi erano loro per trattarci così? A ripensarci oggi sembra strano, e chiunque è libero di non credermi, ma quasi tutti eravamo dei pezzi di pane, come si dice a Roma, strano, vero? E la maggioranza di noi erano proletari, mentre chi ci attaccava spesso proveniva da famiglie alto-borghesi. Però la cosa più bella di quel periodo è la nostalgia della nostra unità, di quanto ognuno tenesse agli altri, perché è questo che conta. Nel momento del bisogno c’eravamo tutti. Se tornassi indietro? Rifarei tutto. Ma lo rifarei meglio”.
* “Attivisti” di Antonio Pannullo, edizioni Settimo Sigillo, pp. 696, due volumi, euro 39. Si può richiedere alla casa editrice Settimo Sigillo in via Santamaura 15, tel. 06 39722155 o alla Libreria Europa in via Tunisi 3a tel. 0639722159, entrambe a Roma