«Durante il fascismo io non ho mai fatto parte dei milioni del consenso. Preferivo leggere, scolpire, disegnare, ascoltare musica e fare l’amore con il mio ragazzo». Così parlava di sé Maria Giovanna Pazzagli Predassi, cioè Gianna Preda, nata l’11 febbraio del 1921 a Coriano, vicino a Rimini. Anche se il padre era fascistissimo, durante il Ventennio la giovane rimase insensibile ai condizionamenti del tempo e alle esaltazioni littorie. L’impegno politico arrivò dopo, quando il regime era ormai caduto in disgrazia ed esservi accostati non portava più vantaggi e benefici, ma solo il marchio infamante di “fascista”: «L’ho fatto per una forma di civetteria selvaggia – spiegherà poi lei – Ma di destra sono diventata dopo, col Msi di Almirante».
Già solo per queste due frasi Gianna Preda meriterebbe d’ufficio un posto riservato nella galleria dei personaggi “fuori dal coro”. Ma per fortuna nostra e dei suoi lettori, nella sua breve vita (è morta nel 1981, a soli 60 anni) Gianna ne ha dette e scritte così tante di opinioni controcorrente, che a volerne elencare le principali c’è solo l’imbarazzo della scelta. E’ stata la più grande giornalista italiana di “destra”, e detto appare una distinzione un po’ stupida. Invece negli anni di Gianna Preda – dalla metà dei Cinquanta sino alla fine dei Settanta – la specificazione era obbligatoria, perché a chi proveniva dalla parte “sbagliata” o l’aveva scelta con la spensieratezza dei vent’anni, il mondo del giornalismo era in gran parte precluso. Niente grandi quotidiani, niente rotocalchi patinati, niente teleschermi della tivù di Stato. Al massimo un po’ di onesta pratica nei giornali di partito e nelle riviste di area, quelle che hanno sempre pagato poco e sono rimaste confinate negli orizzonti un po’ angusti dei lettori di nicchia.
Dopo aver esordito al Giornale dell’Emilia e poi lavorato per il bolognese Cronache, diretto da Enzo Biagi, Maria Giovanna Pazzagli Predassi si trasferisce a Roma e inizia a scrivere per Epoca e il Giornale d’Italia. Nella capitale, nel ’54, avviene l’incontro che le cambia la vita: conosce il suo conterraneo Leo Longanesi, che la chiama al Borghese, il periodico che aveva fondato quattro anni prima. Sarà lui a scegliere quel nom de plume che per 25 anni diventerà garanzia di giornalismo graffiante, scomodo, controcorrente e irriverente: Gianna Preda.
In coppia con Longanesi e poi, alla morte di quest’ultimo (avvenuta nel 1957), con Mario Tedeschi, Gianna Preda lancerà quello che rimane, forse, l’unico vero giornale dichiaratamente di destra ad aver riscosso un vasto successo di critica e pubblico nel secondo Dopoguerra. Il Borghese diventa una straordinaria palestra per i giovani giornalisti non allineati degli Anni Sessanta e Settanta e un rifugio sicuro per le grandi firme che non si riconoscevano nell’Italia un po’ grigia e moralista dello Scudocrociato, nel Paese diviso tra fra filo-americani e filo-sovietici, nella cultura sempre più ostaggio della gauche-caviar di osservanza marxista. Vi scrissero Piero Buscaroli, Luciano Cirri, Luigi Compagnone, Giuseppe Prezzolini, Guglielmo Peirce, Armando Plebe, Giovanni Ansaldo, Julius Evola, Alberto Giovannini e persino Indro Montanelli, sia pure sotto pseudonimo.
Anni dopo la Preda dedicherà proprio al grande giornalista, fondatore de Il Giornale, uno dei suoi più caustici giudizi: «Indro Montanelli ha quasi sessant’anni, ma è sempre l’enfant gatè dei miliardari e, ormai, anche dei grossi borghesi, di fresca data e dei freschi conti in banca… L’età non ha maturato l’eterno fanciullo prodigio di Fucecchio. Lo ha reso soltanto più stucchevole e spregiudicato nell’arte di barare, mescolando le carte di mezze verità e delle fandonie».
Al Borghese Gianna Preda era redattore capo, gestiva la popolarissima rubrica della posta e spesso scendeva in campo in prima persona firmando gli articoli e le inchieste più scottanti. Nel 1966 una sua intervista a Giorgio La Pira fu causa delle dimissioni di Fanfani dalla carica di ministro degli Esteri e furono innumerevoli gli articoli nei quali la Preda denunciava gli scandali della politica consociativa (quasi una pre Tangentopoli) e fustigava i costumi della classe dominante e degli intellettuali à la page. Memorabili le sue sferzate contro le femministe, all’epoca particolarmente agguerrite.
Dura, caustica, reazionaria e magari fascista. Però mai moralista né oscurantista. Prontissima a entrare in urto con la sua stessa parte politica quando non ne condivideva certe battaglie, come la Legge Merlin, la campagna sulla pena di morte e soprattutto l’appoggio dell’Msi al referendum contro il divorzio, che la spinse a polemizzare con Almirante e a restituire la tessera del partito.
Ma il suo impegno professionale non si esaurì con il giornalismo: la Preda fu anche sceneggiatrice cinematografica e apprezzata autrice di copioni per cabaret, affidati alla verve di Oreste Lionello e Luciano Cirri, che aiutò e sostenne nella fondazione del teatro del Bagaglino e poi del Giardino dei Supplizi. Scrisse pure una decina di libri, molti dei quali in coppia con Mario Tedeschi, ma fu l’ultimo – Fiori per io, del 1981 – a riscuotere il maggior successo editoriale: era la sua autobiografia e uscì a pochi mesi dalla sua morte. Prese congedo dai lettori con un ultimo articolo, uscito il 10 maggio 1981, che titolò «Per fatto personale»: «Continuerò ad arrabbiarmi sempre di più per le tante storture, iniquità e laide faccende – scrisse nel suo commiato – fors’anche per la paura di non aver tempo di vedere andare a posto qualcosa in questo nostro Paese». A più di trent’anni di distanza, è difficile darle torto. E anche pensarla in modo più ottimista di lei.