L’oratoria latina, conosciuta nella Roma antica con il termine ars dicendi, è tra le forme d’arte più antiche e nobili della nostra tradizione. Personalità come Catone il Vecchio, Quintiliano, Marco Tullio Cicerone si cimentavano in dialoghi, monologhi e dibattiti su tematiche di elevata cultura e spessore con il fine di persuadere gli ascoltatori alle proprie idee e dottrine.
Per questo motivo era ritenuta una forma di letteratura propria di una classe colta ed elevata.
L’oratoria al fine di essere definita tale aveva poche ma rigide caratteristiche: l’inventio, la capacità di trovare qualcosa da dire in sede pubblica; la Dispositio, la capacità di porre le argomentazioni in modo logico; la Elocutio, la scelta dello stile e delle parole da usare; la Memoria, la capacità di esporre il discorso usando le tecniche mnemoniche imparate alla scuola di retorica; l’Actio, il modo di porsi davanti al pubblico. A queste si associavano una serie di elementi distintivi sulla persona che avrebbe dovuto usare questa sottile forma d’arte.
Una sorta di vademecum. Ognuno era ben consapevole che per avvicinarsi a questa dottrina oltre alla preparazione era indispensabile il rispetto verso i propri interlocutori. In fondo erano loro attraverso la loro presenza e il loro ascoltare che ti legittimavano a parlare.
Ma cosa succederebbe se volessimo associare queste piccole e basilari regole dell’oratoria alla “arte” dialettica della classe politica di oggi, dato che troppo spesso (ed erroneamente) viene definita come la classe oratoria dei giorni nostri. Cosa accadrebbe se Cicerone per sbaglio ascoltasse i nostri “leader” durante i loro roboanti e choccanti discorsi.
Prima di tutto noterebbe un enorme distacco tra quello di cui parlano e la realtà e i bisogni generali. Noterebbe che nessuno scende più tra la folla a cercare di spiegare i propri progetti e presentare le soluzioni ai problemi. Resterebbe sconcertato dal non vedere più un contatto diretto tra coloro che parlano e coloro che ascoltano. Ci sono solo sondaggi, polemiche e alleanze per riuscire a governare. Il come poco importa. Colui che parla non si espone più in prima persona alla reazione di chi dovrebbe votarlo oppure criticarlo. Oggi sono tutti li chiusi negli studi televisivi dove vanno in onda aridi dibattiti e discussioni costruite in cui, seguendo una scaletta prestabilita non c’è nessuna domanda imprevista o scomoda nessuna verità improvvisa, insomma nessuna notizia. E l’ascoltatore in tutto questo? Ormai ha un ruolo di secondo piano. Non gli è richiesta nessuna legittimazione. È solo uno spettatore distratto, più attento a commentare sui social quello che i candidati dicono, che ad ascoltare davvero ciò che propongono.
Ma andando un po’ più a fondo è molto facile capire anche il perché oggi i politici preferiscono non andare nelle piazze, organizzare manifestazioni o dibattiti. perché dovrebbero dare risposte. Risposte per le quali non sono preparati. Insomma non hanno studiato.
Partiamo da Bersani, la sua incapacità nel modo di comunicare, rende vano anche i contenuti di quello che dice. Sempre superbo al di sopra delle critiche (“Italia Giusta” anche lo slogan scelto la dice lunga) è lontano proprio dalla gente che dovrebbe rappresentare. Berlusconi è un animale da palcoscenico, ma troppo influenzato dalle proprie emozioni e avvenimenti personali per riuscire a dare concretezza al proprio programma. Insomma sa cosa dire, come dirlo ma poi… Monti, da professore ha una risposta per tutto ma non soluzioni. Non porta argomentazioni alle sue idee. Crede basti la sua parola e questo non lo rende affidabile. Ingroia non sa cosa dire e soprattutto come parlare alle persone. Vendola invece sa come parlare alla gente ma non sa dialogare con chi la pensa diversamente. Fini e Casini non pervenuti. Grillo infine (l’unico che ancora parla alla gente) sa cosa dire e come dirlo, ma lui non cerca soluzioni ma solo reazioni. Vuole fare rumore infatti solo un grillino su cinque crede nella concretezza delle sue parole!
Insomma se andiamo a fare un confronto con gli oratori del passato sarebbe una catastrofe. Quelli che ci ostiniamo a chiamare classe politica non ha lo spessore, la cultura e il rispetto per i suoi interlocutori, dei grandi pensatori del nostro passato. Forse sarebbe il momento di smetterla di chiamarla classe dirigente. Cicerone ringrazia.