Trovo una perdita di tempo spiegare come uno scrittore abbia apparecchiato, apparecchia e apparecchierà le sue storie, come nascono i personaggi, che voleva dire, che cosa ha pensato, se ha sofferto o meno, se la sua è una confessione o se ha immaginato tutto, fare queste cose è come mettere le didascalie al romanzo, una sconfitta. È come chiedere a un ragazzo di venire accompagnato a scuola dai genitori, è umiliante. Però quando ti ritrovi una schiera di avvocati che non ha capito il tuo libro, fai uno sforzo. Per questo eccomi qua a cercare di raccontarvi che cosa ho combinato, per gli avvocati della FIGC, per l’allenatore della nazionale italiana al quale come recita la quarta di copertina e la fascetta scelta dal mio editore (Chiarelettere), è ispirata la vicenda del protagonista del mio libro “Per favore non dite niente”. E che tanto li ha fatti incazzare da diffidare me e la casa editrice. Potrei farla breve e dirvi che tutto il gioco di finzione si spiega in poche righe che ora vi copierò – e che né Prandelli né la FIGC, nonostante avessero il libro da febbraio, hanno letto –. Il percorso è questo: il lettore apre il libro convinto di trovare la sua immagine di Prandelli: quella pubblica che tutti conoscono e che arriva da interviste, riprese tv, partite, racconti di giornali, testimonianze, e invece non lo trova fisicamente, non trova il suo nome ma crede di trovare il suo linguaggio, la sua vita, come forse Prandelli pensa, lo sente raccontare e gli va dietro, e quando a pagina 21 legge: “È arrivata una cartolina di Paolo, scrive: «Altri giorni, altre notti». Che significa? L’ho appesa in cucina, c’è una foto dei tetti di Oslo innevati, il cielo blu ritoccato e una luce giallognola, falsa come la voce di chi mi dice che somiglio a Jeremy Irons”. Rilegge la frase e pensa: non è lui, se gli dicono che somiglia a Jeremy Irons (quei pochi che non conoscono l’attore lo googleranno e si uniranno agli altri), la differenza salta agli occhi. E poi noterà che il Prandelli aspettato è diverso da quello vero tanto che gli dicono che somiglia a un attore famoso (montaggio analogico), però lui (il personaggio che si chiama Marco) dice che è falso: cortocircuito. Il romanzo comincia, il lettore da quel momento vuole capire che succederà. Ritrova la storia della perdita, i campi, alcuni calciatori che recitano la loro parte con i loro nomi veri e la loro vera storia e altri calciatori e allenatori che recitano la loro parte ma in un contesto differente e che vi sembra di conoscere, e altri calciatori, allenatori, presidenti di cui non avrà mai sentito parlare come in ogni romanzo che si rispetti. Fin qui ci siete? Direi che anche un avvocato della FIGC può capirlo. Facciamo un passo indietro. Nel 1865, in molti criticarono Tolstoj per aver scritto una cosa – “Guerra e Pace” – che non pareva un romanzo, anzi non si trovava un modo per definirlo, perché aveva mischiato Napoleone o per dire Kutuzov, con personaggi inventati come Andrej Bolkonskij o Pierre Bezuchov. Che io debba tornare su questa cosa spiegando come sono evolute le pagine, e di come si arrivi al mio libro è abbastanza triste, ma c’è gente che non ha acquisito questo canone, eppure in tanti si presume abbiano letto e studiato Tolstoj. O perlomeno che abbiano visto “House of cards”, la serie americana con Kevin Spacey nel ruolo di Frank Underwood, un politico senza scrupoli che mira alla Casa Bianca, un personaggio di finzione che potrebbe essere reale che somiglia a molti politici reali e che agisce in un contesto vero, nel partito democratico americano e non lo chiamano diversamente, con una realtà parallela ma verosimile, in una città – Washington – che non ha un nome di fantasia ma il suo vero nome, e che rappresenta un tempo che conosciamo e che attraversiamo, anche se è un tempo di finzione. Tutto quello che provo a fare, è mandare in corto circuito la realtà del lettore, fino a portarlo a quella che potremmo chiamare “soglia Balzac”, da una affermazione dello scrittore: “un romanzo deve essere «una cosa inaudita»”. Per questo scrivo vite che non sono la mia. Invento vite che non sono mie, perché ho acquisito Wilcock e il suo Matteo Campanari, Manganelli e Vila-Matas dei libri sui libri. Poi arrivano Carrère e Moehringer, Littell con “Le benevole” o Laurent Binet con “HHhH” con le immedesimazioni scomode, così citando in fretta e senza metterla giù pesante. E non è un caso che il mio scrittore italiano preferito sia Gian Maria Volonté. Sono un pazzo con mille voci dentro. Perché scrivere è la capacità di farsi altro da sé o non è. Nel mio precedente romanzo “Il vangelo a benzina” (Bompiani) avevo scelto come voce narrante un mezzo camorrista testimone di un regolamento di conti con una voce xenofoba mentre agiva su una strada vera, la Domiziana, completamente africanizzata. Funziona così – come Volonté – scelgo un personaggio esistente, conosciuto o no, una situazione conosciuta e lavoro di immedesimazione ma poi ne trasfiguro realtà e storia, fino a creargli un’altra vita: nel “Vangelo a benzina” era la strage di Castel Volturno, che facevo deragliare dalla realtà, affidandola a un personaggio di finzione, Dragoslav che tutti chiamano Vucinic – per la somiglianza col calciatore, che no non mi ha diffidato –, un ex cecchino che poi è anche l’assassino di Anna Politkovskaja, omicidio compiuto per avere una squadra di calcio nella Premier League, lo vedete il cortocircuito?). Guardo alla realtà cercando come deformarla, ne scelgo un pezzo lasciandolo nel suo contesto, magari con la stessa gente intorno e procedo modificando, trasfigurando. A volte in grande a volte in piccolo. Non è solo fiction sono pezzi di realtà inalterati con una nuova realtà innestata, che riproducono qualcosa di simile a quello che conosciamo ma con moltissime varianti che si declinano in dettagli che si declinano in pensieri fino ad avere epiloghi differenti, formando un tempo che è non esistente. E se anche riesco a tenere ben presente la realtà principale, l’intento è quello di confondere il lettore al punto di non sapere più in che posto si trovi. Chi ha letto “Trama celeste” di Adolfo Bioy Casares capirà subito che cosa intendo per “non sapere più in che realtà si trovi” non solo il lettore ma anche il personaggio. Il metodo è semplice, si sceglie la persona – mettiamo un allenatore con una storia particolare, come Prandelli, ehi FIGC ho detto METTIAMO – si leggono le sue interviste, si guardano le sue reazioni rispetto a vittoria e sconfitta (trattandosi di un allenatore di calcio) si incrocia lavoro e non lavoro, e si cercano i varchi per infilarsi e rivoltare la storia. Poi si può parlare con gente che conosce la persona che sta per diventare personaggio, si studia il suo linguaggio, i riferimenti, l’immaginario e gli intercalar, il suo mondo. Insomma è quasi un lavoro filologico prima della riscrittura, e a volte capita anche di accorgesi di aver sbagliato tutto, o anche di dover cambiare il registro, perché si era pensato a una voce grottesca che invece si rivela debole o a un registro drammatico che invece non si immaginava, e via così. E tutto questo l’ho capito leggendo l’opera di Gay Talese – anche se lui non fa fiction ma ritratti – e, soprattutto, il suo lavoro su Frank Sinatra, dimostra come – se si è bravi – non serva parlarle con nessuno, basta studiarne linguaggio e ambiente. Il resto è immaginazione ma avendo un profilo psicologico segnato. Per me la parte fondante è il linguaggio e da lì i pensieri e lo sguardo. A tutto questo, poi, ho esasperato la lezione di sovrapposizione temporale. Mentre Littell e Binet riscrivono il passato io lavoro sul presente, sui viventi. Capite che se a un contesto vero, con un protagonista famoso, si aggiungono dei personaggi di fantasia, oppure se con un protagonista famoso o una storia di cronaca vera, si prova a immaginare una nuova realtà riscritta secondo il più assurdo dei casi, per me si sublima la letteratura. Usando la realtà per piegarla, mettendola ai lavori forzati della mia immaginazione. E soprattutto sono fermamente convinto che i personaggi pubblici possono e devono essere soggetti a riscrittura, dal Papa in avanti. Perché entrano nel nostro quotidiano, si impongono, e l’unico modo che ha un artista che vuole agire nel suo tempo e riscriverli, usarli, trasfigurarli. È quello che ho fatto, è quello che continuerò a fare. Come scriveva Mandel’stam ne “La fine del romanzo”: «Ancora una volta, il pensiero del prosatore scorrazza, come uno scoiattolo, sull’albero della Storia, ma non tocca a noi trovare il modo di attirare quella bestiolina in una gabbietta portatile», e nemmeno alla FIGC.