Trentatré anni fa, per la precisione il 26 gennaio del 1980, lasciava alla terra le sue spoglie mortali Massimo Scaligero. Il numero di anni trascorsi da quell’evento non lascia indifferenti coloro che sanno quanto il Cristo di cui parlava e scriveva Scaligero non fosse una mera figura di devozione confessionale ma una realtà esperita nel profondo. Ma non è del Cristo che si incontra nelle sue opere che vogliamo trattare in questa sede. Sarebbe arduo e presuntuoso. Cogliamo solo l’invito concessoci dall’anniversario per ricordare questo straordinario pensatore.
Ecco, pensatore è il termine più adeguato per Scaligero. Non era infatti un filosofo, se per filosofia intendiamo il gioco dialettico, lo sforzo puramente celebrale, l’offerta di un sistema bell’e pronto che spieghi l’esistente. Non era un esoterista, se per esoterismo intendiamo fumosi gnosticismi, il rispolvero di rituali rinascimentali o antico-egizi. Non era uno scienziato perché non limitava il suo impegno alla percezione offerta dai cinque sensi e dalla tecnologia. Era un pensatore perché indicava proprio la via del “pensiero vivente”, libero dai condizionamenti del corpo, dai dogmi di ogni tipo e colore, dai “pensati” ereditati od imposti. Quella era ed è l’unica uscita dallo stato di alienazione proprio della civiltà moderna e postmoderna. Ma come non vogliamo parlare del “suo” Cristo, nemmeno intendiamo riassumere in poche battute le tecniche di meditazione che ci ha lasciato seguendo ed approfondendo alcune indicazioni di Rudolf Steiner, fondatore dell’Antroposofia, anche detta Scienza dello Spirito.
Se ci preme ricordare Scaligero è per rimarcare l’importanza, l’urgenza di mettere mano, occhi e cuore alle sue opere politiche. Termine inadeguato, però, quel “politiche”. Infatti, sono raccolte (in edizione Tilopa del 2008) con il titolo di “opere sociali”. E già molto si spiega con questa scelta, suggerita anch’essa da Steiner. Infatti Scaligero nemmeno era un politico, si considerava anzi l’esatto opposto di un uomo politico. Ciò non significa che facesse antipolitica. Però era convinto che l’era della politica fosse finita e che “attraverso la scorza degli impulsi politici esauriti” si stesse facendo strada “l’era sociale o dell’impulso morale”. Gli esseri umani dovevano, devono, dovranno liberarsi definitivamente dall’eredità dei tempi antichi, di quando erano determinati esclusivamente dalla loro appartenenza alla polis, al clan, alla razza, al partito. A qualcosa di esterno, di imposto, di non meditato. La politica è ormai “sopravvivenza di un autentico oscurantismo mentale, che impedisce di prendere contatto con il contenuto obiettivo dei problemi”. Le soluzioni prestabilite sottraggono infatti coscienza ad uomini ormai maturi per essere liberi, lo spirito di parte ostacola la comprensione delle ragioni dell’altro. Dunque, non di più politica abbiamo bisogno, ma di socialità, non di cittadini ma di soci: individui liberamente associati, con patti chiari e rispetto reciproco.
Scaligero ha avuto un certo ruolo nella storia della destra italiana. Non tanto perché maturò culturalmente negli anni del regime fascista (in cui mai si riconobbe pienamente) o perché fu amico personale di Julius Evola. Più che altro, nel dopoguerra si avvicinarono a lui e al suo insegnamento esponenti del primo MSI come Enzo Erra e Pio Filippani Ronconi. Vero è che le sue opere sociali demoliscono soprattutto il marxismo, anche perché le scrisse in anni (fra il 1968 e la metà degli anni ’70) in cui fortissima era l’influenza del barbuto di Treviri sulla cultura italiana e fra i giovani. Eppure quella stessa critica demolisce anche gli schemi della destra otto-novecentesca, perché comune è la radice, l’errore dei due diversi schieramenti: l’appiattimento dell’umano sul piano economicistico e materialista. Allora non stupisce che gli incontri pubblici che Scaligero offriva ai volenterosi romani negli anni ’70 fossero frequentati da militanti di Autonomia Operaia come da neofascisti, da borghesi benpensanti e da cattolici confusi nel caos postconciliare. Ciò avveniva perché trovavano qualcosa che trascendeva le loro visioni parziali, che trapassava il loro errore per andare alla radice del problema. E la soluzione non era certo un vago richiamo allo spirito, una retorica reazionaria o anarchica ma un metodo per riappropriarsi in piena coscienza di qualcosa che l’umanità possedeva inconsciamente prima di cadere nell’età oscura del trionfo della materia, nel regno della quantità.
Oggi che il superamento del dualismo moderno fra destra e sinistra appare il compito più urgente per una matura ed incisiva azione sociale, non dobbiamo rischiare che questa missione si fermi allo slogan, alle buone intenzioni, ad un superficiale trasversalismo culturale.
Tutto va ripensato, Scaligero è il miglior maestro di pensiero che gli Dei e la Provvidenza ci hanno donato. Sforziamoci di esser degni di quel dono. E se vogliamo veramente essere rivoluzionari, ricordiamo che “l’autentica azione rivoluzionaria” scaturisce “dalla possibilità che il moderno uomo razionale ritrovi in sé, oltre il limite mentale, il mondo delle idee viventi”.