Nato a Roma centoquindici anni fa ma siciliano di origini (nessuno è perfetto). Negli ultimi anni Giulio Cesare Andrea Evola in arte J. Evola o Julius Evola, di strada ne ha fatta e tanta. Poco o punto considerato – al più razzista così sporco da non ammettere repliche a sua discolpa – ai giorni nostri, grazie ad una riscoperta avvenuta negli anni Novanta, è in grado di personificare una terza via filosofica fra Croce e Gentile. Così la pensano, fra gli altri, Franco Volpi e Massimo Donà che rispettivamente nel 2006 e nel 2007 hanno annodato il proprio destino di saggisti a quello peraltro assai diverso del nostro pensatore capitolino.
Oggetto di studi anche seri, per i suoi volumi e per la sua attività sono stati versati oceani di inchiostro a formare citazioni non di rado a vanvera. Presso un’aula universitaria così rossa da far sembrare Trotsky un pretino di campagna un giorno lo si catalogò come “fascista di sinistra”. Quasi una carezza. Qualche ora prima un prof socialista con codazzo di accesi portaborse ne aveva decretato la non recepibilità declamando una bolla in dialetto siculo: «I libri di Evola? Io i bruciasse!» (no, quel tale faceva ridere ma non era Andrea Camilleri…).
Anticomunista e reazionario (come poteva esserlo un de Maistre), nato come esponente e teorico dell’arte astratta, in perenne ricerca della trascendenza (nulla a che vedere con gli esistenzialisti, lo si comprende leggendo Cavalcare la tigre il volume che resta il suo capolavoro), aristocratico più per elezione che per sangue, studioso e sperimentatore, Evola è stato definito filosofo della prassi (ma ovviamente non c’entra nulla con Gramsci). È necessario, ma non sufficiente, leggere uno dei libri meno conosciuti ripubblicato in 4a edizione dalle romane “Mediterranee”, Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, per apprezzarne altresì tutta l’Anschauung decadente. Consigliò ai più, egli non cristiano, una rapida conversione, un ritorno al cattolicesimo, a meno che (a meno che…), il catecumeno non fosse appartenuto ad una élite spirituale pronto a bussare alla porta di tradizioni altre, senza escludere (anzi!) la magia come parte pro-positiva di ogni faccenda. Coerentemente ritenne il cattolicesimo, in quanto religione e come le altre religioni, una via dimezzata alla tradizione: in pochi (e senza presunzione) avrebbero trovato soluzioni altrove.
Evola non era privo di una sua graffiante ironia come fra gli altri può testimoniare Gianfranco de Turris curatore dell’opera omnia, appunto per le “Mediterranee”, e segretario di una Fondazione voluta dallo stesso filosofo per tuffarsi negli studi produttivi, dai più completi alle semplici speculazioni di un giorno o due. Non di rado gli “insegnamenti” evoliani riproducono al di là della longitudine, est o ovest, gli umori di un maestro Zen.
Filosofo in un’epoca nella quale il ritorno alla soggettività colmava i vuoti lasciati dalle culture che costruivano mondi globalizzati giocando con la più classica delle trapunte, lasciando cioè scoperta ora la testa ora i piedi, s’innamorò d’un imperialismo pagano il cui contenuto assai polemico ha lasciato piccole tracce; poi attraversando una nuova ontologia, grazie soprattutto a René Guénon, scrisse l’opera più nota, quella Rivolta contro il mondo moderno definita “opera d’arte” da Manlio Sgalambro, letta almeno da quattro generazioni di uomini e donne.
Monarchico e fascista critico – in direzione completamente opposta a quella di un Max Horkheimer –, si schiera dalla parte dell’“uomo nuovo” di Mussolini per tutti gli anni Trenta. Sta con la Rsinel periodo del grande caos, rimane a Roma fino all’ingresso degli alleati (che lo ritengono solo una spia), poi lascia la città, risale lo Stivale e va a Vienna. Qui decide di interrogare la sorte – o chi per lei – tentando di farla finita. Va sotto le bombe nemiche in una fresca primavera mitteleuropea. Ma quel destino di cui aveva scritto pagine memorabili lo beffa uccidendolo solo a metà (uno spostamento d’aria gli spezza la spina dorsale e gli inibisce a vita l’uso degli arti inferiori).
Sfiduciato e sofferente (ne sono testimonianza le foto proposte e riproposte un giorno sì e l’altro pure), ma assai ricco di esperienze e di sapere, nel dopoguerra diventa un idolo per i più giovani. Sulle prime della generazione dei Fascisti-dopo-Mussolini (con loro finisce in galera e lì sarebbe ritornato se non ci fosse stata un’amnistia), quindi nei Sessanta dei nazional-rivoluzionari in cerca di padri putativi.
Di Gianfranceschi, Erra, Rauti, Melchionda e altri studiosi della Tradizione, Evola condivide lo spirito ribelle ma non rivoluzionario sbocciato nell’Italia dei Quaranta (per quei giovani butterà giù almeno un paio di programmini: Orientamenti e la Carta della gioventù), dei secondi, piaccia o meno, condividerà un bel nulla. Sessant’anni fa uno dei pochi libri politici a firma J. E., Gli uomini e le rovine: l’anima di un patrizio in salsa ottocentesca. Da sempre uomo di destra, bastian contrario per natura, anzi per equazione personale direbbe di se stesso, Evola non ama le teste calde (coloro che in anni a noi vicini, nascondono le poesie di Mao nel taschino sinistro e roba fascista in quello destro), ma ama poco anche la gente comune la cui condotta non può non cozzare contro la sua voglia di élite.
Muore nel giugno del 1974 giusto in tempo per assistere al terrorismo e alle stragi che insanguinano il Paese. L’Italia ufficiale ricambia con la stessa moneta il suo “affetto” (sul Corsera il solo necrologio è degli Scheiwiller suoi editori). Tanta freddezza per il passato imbarazzante, per la contiguità ideologica alla Destra nazionale e per quel suo fare pungente da “insopportabile genio”, di cui ha scritto Jeffrey Schnapp.
In vita pubblicò opere memorabili quali Teoria e fenomenologia dell’individuo assoluto (in due volumi separati) e Metafisica del sesso. Si dedicò alle dottrine orientali e alle culture alternative anticipando (con ben altri obiettivi), professorini e sfigati ebbri di cinema impegnato. Tradusse fra gli altri Spengler, Jünger, Meyrink, Weininger e lo stesso Guénon, infine fu critico severo e sagace di un’Italia mai sua.
È arduo non pensare al rigoroso pessimismo evoliano in anni di grandi miserie morali e materiali. Le sua frase più celebre? “Occorre far sì che ciò su cui non si può nulla, nulla possa su di noi”. Pilastro di un rinnovamento filosofico costruito in vista dell’“ultimo chilometro”. L’impegno per difendersi anche da chi dal sottoscala del pensiero lo aveva frequentemente avversato.