Hanno più di vent’anni e meno di quaranta. La maggior parte di loro non ricorda il muro di Berlino e non ha mai avuto bisogno di cambiare delle lire in franchi, marchi o dracme. Sono cresciuti imparando, magari alla bell’e meglio, l’inglese, hanno viaggiato con l’InterRail e hanno frequentato il programma Erasmus. Sono la generazione “altrove”, come qualcuno li ha già definiti, gli oltre 27mila giovani Italiani (Aire, 2011) che ogni anno lasciano l’Italia per trasferirsi all’estero. È l’equivalente di un piccolo comune che ogni anno si svuota, migrando altrove. Le ragioni che muovono questa decisione sono legate, quasi sempre, alla disoccupazione. Ma non solo. Non parlano soltanto di disoccupazione, ma anche di mancanza di meritocrazia e trasparenza. Così Michele, che pure ha preso una laurea impegnativa: Ingegneria Ambientale. A 33 anni, dopo una serie di esperienze insoddisfacenti, parte per l’Australia, senza grandi progetti ma con tanta voglia di riscatto. “Vivo a Melbourne, dove ho continuato a studiare, frequento un Master, sempre in Ingegneria Ambientale. Nel frattempo lavoro. Il desiderio di tornare c’è, ovviamente, ma lo farò solo quando e se le cose cambieranno, quando potrò farlo sperando in un futuro, in una prospettiva di vita”. Altre volte ciò che spinge i giovani a lasciare l’italia è la ricerca di una preparazione all’altezza, soprattutto per quanto riguarda le materie in continua evoluzione. Più spesso, però, è la ricerca di quel briciolo di pazzia che fa la differenza, e da cui nascono le grandi idee, i grandi progetti. Così la pensa Stefano, classe ’86, da sempre fuori dalle righe. Inizia da giovanissimo a sviluppare attività su internet, a 21 anni fonda la prima società e, a 23, ha già all’attivo un anno di Erasmus in Spagna, la collaborazione giornalistica con TechCrunch, una serie di siti, applicazioni e progetti (tra i quali Roma3.net, la più grande student community legata ad una università italiana), una laurea in Ingegneria Informatica ed una relazione stabile, divenuta una convivenza. La rivista Wired, all’epoca, l’aveva indicato come possibile futuro Ministro dell’Economia. Ma il ministero non era tra le sue ambizioni: migra da Roma a Milano, dove trova lavoro presso dPixel, società di venture capital. Aspira alla creazione di una start-up, ma non trova un co-confondatore, nonostante nel suo stesso corso di laurea ci fossero, come riconosce, persone brillanti e preparate: “manca la scintilla – spiega – la pazzia, la voglia di fare qualcosa di diverso e di contribuire con qualcosa di proprio al mondo, la voglia di seguire la propria passione, di non vendersi per un lavoro insoddisfacente ed una vita infelice. Manca l’estro tipico italiano”. L’estro italiano, però, c’è: lo ritrova negli Stati Uniti, dove riesce a recarsi ritagliando, dalle ferie lavorative, il tempo per vedere da vicino la Silicon Valley, per conoscere imprenditori e venture capitalists. “In sole due settimane ho conosciuto una quantità di gente – racconta – qualitativamente incredibile, e molti di loro sono italiani”. Si licenzia, quindi, da un contratto a tempo indeterminato a Milano e va a cercare fortuna a S. Francisco. Gli è andata bene: oggi ha 26 anni, lavora, è sposato e sta per diventare papà. “Mi occupo di startup, finanza, imprenditoria e guadagno oltre 4 volte quel che prendevo in Italia”.
È andata bene anche a Katia, che dei suoi 25 anni compiuti da qualche mese ne ha già passato uno intero in India, ed attualmente si trova in Cina. Dopo una brillante carriera universitaria, conclusasi senza un giorno di ritardo e con una laurea a pieni voti in Scienze della formazione continua, ha dovuto far fronte alla realtà nazionale, che continuava ad offrire stage su stage. “Avevo bisogno di formarmi una professionalità – spiega – ed ero affascinata dall’idea di lavorare in paesi in via di sviluppo”. L’esperienza indiana è durata un anno, al termine del quale c’è stato un primo tentativo di tornare in patria. Ma non è andato in porto: “anche dopo un anno all’estero, le aziende italiane continuavano a propormi stage. Non era fattibile. Mi sono rivolta al mercato internazionale ed ho trovato un ottimo posto in Cina, presso un’azienda che collabora con una multinazionale europea. Qui ho un’ottima posizione che mi dà soddisfazione, mi permette di crescere e, soprattutto, di mettere finalmente a frutto gli studi universitari”. Il problema, sottolinea, è che “in Italia formiamo professionisti ma non c’è lavoro. Nei paesi in via di sviluppo, invece, c’è lavoro ma spesso manca la formazione”. Tornare? Un’idea non del tutto sepolta: “Probabilmente tornerò, ma non prima di 4 o 5 anni”.