La vita di una persona alla ricerca di un posto di lavoro, probabilmente, scorre proprio così: fra lavori a tempo determinato nella speranza che diventi indeterminato; fra la voglia di essere promossi anche su un posto di lavoro che proprio non piace. E chissà che la ricerca del lavoro non finisca un po’ per impoverire i pensieri di chi continua a farla giorno per giorno. Viene da chiederselo leggendo Mia moglie e io, opera prima del catanese Alessandro Garigliano (Ed. LiberAria, pp. 234, 15 euro) che esplora proprio i pensieri di un uomo sposato, che si dibatte fra colloqui e lavori, e che nel ripetersi stanco delle giornate, in una vita apparentemente monotona e senza colpi di scena, si anima dietro la ricerca del “delitto perfetto”.
Non stiamo parlando di un giallo, anzi. I “cadaveri” restano i protagonisti delle immagini dell’uomo, di cui non conosceremo il nome fino alla fine. Nella ricerca continua di un lavoro, il protagonista si adatta ad ogni cosa sembrando quasi non avere alcuna pretesa, ma cucendosi addosso un ruolo: che sia quello di chi ordina gli scaffali in libreria o quello di manovale. In una vita così tranquilla, però, a dare brio e colore ci pensa la moglie, insegnante precaria che il marito descrive quasi maniacalmente in ogni suo gesto. Quasi a voler trovare un punto di incontro fra due persone così apparentemente distanti. Il minimo comune denominatore resta comunque il lavoro che non c’è, che è precario, che deve smuovere la propria ambizione anche quando non piace, anche quando dura solo qualche mese. Il tutto per non morire dentro, sebbene un po’ si muoia comunque non lavorando.
Senza urlarlo, senza buttare la croce addosso a nessuno, senza incolpare la generazione precedente o la classe politica, Garigliano tratteggia un uomo senza identità perché senza realizzazione professionale. Un uomo che alterna la gioia per aver finalmente trovato un lavoro allo smarrimento di un esercizio che non sente come proprio. E questo malessere si percepisce sì, ma non tanto da sentirtene atterrito e svuotato. Lo scrittore non lascia intravedere alcuna luce ai lettori, ma viene facile immaginare che alla fine del tunnel una luce ci sia. E se il tempo del lavoro è determinato, quello dell’amore coniugale diventa indeterminato, segnato da un innamoramento quasi adolescenziale del protagonista per la moglie.
Su tutto il romanzo aleggia costantemente la morte inscenata insieme alla moglie nella ricostruzione di set cinematografici per cortometraggi. Come in una tragedia greca, perciò, la messa in scena della morte diventa un modo per esorcizzare la morte interiore che alita sul collo del protagonista perché senza lavoro. Arrivando all’ultima pagina ne esce un ritratto sensibile ed inedito della crisi di una generazione di uomini e donne che restano come in un limbo perché disoccupati.