Lo confesso. Anch’io, come Marco, mi ero chiesto se trent’anni dopo ne valesse ancora la pena. Consapevole dell’onore che Guido mi faceva invitandomi a presentare il Concerto, evocando il mio ormai archiviato protagonismo nei Campi Hobbit, mi odiavo per non aver saputo dire di no ( per vanità? per nostalgia? per incoscienza?) a qualcosa che avrebbe potuto somigliare a certo goffo reducismo autoconsolatorio che, da anni, ho deciso di lasciarmi alle spalle.
Mi chiedevo se la nostra gente avrebbe accettato, tenuta al buio fino all’ultimo minuto, una sede ostracizzata dai rigurgiti degli ultimi ottusi epigoni dell’odio “antifascista”. Se avrebbe avuto ancora un senso, oggi, parlare di “alternativa” in musica.
Soprattutto, mi pareva stonato riproporre le nostre facce stanche di sessantenni sgamati in salsa giovanilista.
Riconosco che mi sono sbagliato.
E’ bastato impugnare il microfono e salire sul palco del Madison per capire che quella comunità di affetti e di speranze, cementata dagli anni orribili della spranga, non si era dissolta. Trent’anni, una vita, passavano come in un lampo di flash della memoria.
Nomi scomparsi e nuove vite, grandi eventi e piccole infamie, fatiche, gioie, dolori… Solo un attimo di smarrimento e poi “via” a tutta birra.
Quei mille volti attenti, appena velati dai riflettori, erano lì a dirci “ avanti, ci siamo. A dispetto di tutto ci siamo ancora. Vogliamo ancora dividere quelle emozioni che fanno bene, che lavano le scorie del tran-tran quotidiano, la patina gommosa che ci ha fatto cinici e indifferenti.”
I vecchi amici hanno cantato con la stessa intensità di allora, e forse qualche passione di più, le canzoni mai dimenticate del grande Carlo.
I più giovani le hanno rivisitate a loro modo, cercando nuova forza espressiva , martellando robusto entusiasmo, offrendo svolte di necessaria ironia. Energia pura.
Oltre tre ore di maratona musicale sono scivolate via senza intoppi – scandite da un’implacabile scaletta di regià – senza concedere più di tanto a sbavature sentimentali.
Ma si avvertiva, sul palco e nella corrente che percorreva quel pubblico così speciale, che ognuno avrebbe avuto qualcosa da raccontare, fame e sete di testimonianze, tanti abbracci da scambiare. Un rito di comunione che non ritenevo più possibile.
Ne sono uscito più leggero, più giovane, più contento di me.
Quando il cuore batteva ancora all’impazzata per l’emozione, è arrivato, a travolgerci, il gran finale: tutti in piedi a dare in voce, in coro, alla nostra idea della vita e del mondo. Una sfida che, alla faccia dell’anagrafe, forse, non si è ancora conclusa.
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