Una cosa è rottamare una classe dirigente di un partito che ha praticamente perso tutte le occasioni, altra cosa è mettersi in testa di rottamare –su due piedi – l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Se n’è accorto Matteo Renzi che, dopo aver valutato l’impatto che hanno avuto le indiscrezioni sul suo stra-annunciato job act (il piano lavoro che si appresta a presentare), ha subito innescato la retromarcia: «Non è una priorità» ha spiegato il neosegretario del Pd alle prese con i primi giorni da “politico” e quindi con le prime smentite anche rispetto a un interlocutore – la Cgil – che sarà difficile trattare con la sufficienza dimostrata duranta la campagna delle primarie.
Eppure Enrico Letta – ormai in gara col segretario sul fronte della battuta e del rilancio – aveva subito “aperto” all’eventualità: «Tutto ciò che fa occupazione è benvenuto». Un po’ sbrigativo come concetto per un premier che passa le sue giornate tenendo sotto controllo le dichiarazioni e le raccomandazioni dell’Ue sui conti italiani e sui costi di eventuali riforme.
Ma questo, trattare gli argomenti con la leggerezza di un “tweet”, sembra diventata ormai la moda dei tre della strana coalizione che regge l’esecutivo. La riprova è avvenuta durante la presentazione del libro di Bruno Vespa dove, per non farsi mancare nulla rispetto il suo avversario, Angelino Alfano davanti Renzi ha rilanciato la necessità del decentramento territoriale e aziendale della contrattazione.
Tutto questo nel momento in cui la legge di stabilità in votazione – come ha attaccato Confindustria – avrà un impatto «molto piccolo sulla crescita». Per il presidente degli industriali Giorgio Squinzi si tratta di «un’occasione mancata. Complessivamente si tratta di intervento modesto sul 2014 che ritocca marginalmente il deficit: in termini di Pil si tratta di qualche decimale. L’intervento principale proposto è quello sul cuneo fiscale ma le risorse stanziate non sono in grado di incidere significativamente». Una bocciatura netta da parte del mondo produttivo.
Insomma, dopo aver compreso l’effetto “tappo” della riforma del lavoro licenziata dal governo Monti (provvedimento che parlava di contratto a tempo indeterminato senza intervenire sulla tassazione del lavoro e delle imprese), la nouvelle vague della politica italiana non sembra avere idee diverse che quelle – molto anni ’90 – di creare lavoratori con meno diritti per ovviare i mancati interventi sul fronte del fisco e della programmazione industriale. E questo avvicina fatalmente tanto la sinistra nuova che Renzi intende imporre quanto il nuovo centrodestra di Alfano.