Letteraria, se non per riconoscere la potenza delle sue terribili caricature, e poiché sto scrivendo queste righe dal paese di Goya, dirò che Céline anche nei suoi più cupi capricci, non si è mai discostato dal reale. Parlerò quindi dell’uomo, che incontrai per la prima volta ad un pranzo, all’inizio dell’Occupazione, dopo che ebbi grandemente elogiato, in un articolo, una sua frase sull’alcolismo in Francia, e che mi ebbe spedito uno dei suoi libri, con una dedica spirituale, dove mi chiamava “accademico d’assalto”. Quello che mi colpì subito, fu che parlava come scriveva, con frasi corte, un po’ affannose, senza un reale dialogo con l’interlocutore, come se avesse descritto una visione che gli fosse imposta dal suo spirito. Lo rincontrai a Sigmaringen, dove era il medico della colonia francese là rifugiatasi. Intraprese questo incarico con una coscienziosità ammirevole, sostenuto dalla valente Signora Céline, il coraggio della quale, come nelle migliori tra le donne, prendeva la forma del buonumore. Al principio ricevette i suoi pazienti nella sua stessa camera d’albergo, ma in seguito riuscii a fargli ottenere lo studio di un medico tedesco che era assente. […] Lo rivedo ancora, mentre passeggiava per le vie di quella piccola cittadina, con il suo grosso corpo da vecchio corazziere, la sua canadese, i suoi folti capelli neri. Veniva frequentemente a visitare mia madre, ed egli ha scritto su di lei, in Da un castello all’altro, qualche riga di una delicatezza squisita, delle quali gli resterò riconoscente sino alla mia morte. Quando aveva terminato con lei, veniva a chiacchierare con me. Parlavamo di tutto, e particolarmente di letteratura, e lui non si esprimeva per nulla con quel vocabolario truculento che un profano si sarebbe aspettato da lui, ma, al contrario, con le sfumature più esatte e attente. Incontrai solo un altro esempio di un così raffinato gusto letterario, in uno scrittore a prima vista portato alle espressioni violente, e costui era Léon Daudet. Ma la conversazione di Léon Daudet era tra le più ampollose e magniloquenti che abbia mai ascoltato, mentre Céline procedeva sempre per piccoli tocchi giustapposti, come quelli di un pittore espressionista. Parlavamo talvolta anche degli avvenimenti che si svolgevano, e che svelavano secondo me il loro carattere di catastrofe universale. I nostri propositi erano molto tetri, ma anche molto calmi. Io credo di poter assicurare che il sentimento dominante di Céline, nei confronti del mondo attuale, era la disperazione, a condizione che non si associ a questa parola alcunché di commiserante o convulsivo, e di capire che vi può essere una disperazione nera e serena, che conclude logicamente un pensiero retto, sincero e forte. […] La mia ultima immagine di Céline, l’ho avuta alla fine di un luminoso giorno di primavera, quando andai alla stazione a dirgli addio. Prendeva il treno per il Nord, l’ultimo o il penultimo a passare prima che gli americani interrompessero la ferrovia. Portava con sé, tra i suoi vestiti, il suo gatto, Bébert, celebre tra i francesi di Sigmaringen. Inizialmente, avrebbe voluto lasciarlo a delle brave persone, che se ne sarebbero presi cura con l’affetto che i tedeschi portano agli animali, ma alla fine non era riuscito a separarsene. Intendeva raggiungere la Danimarca, dove credo avesse depositato del denaro. Sperava di trovare lì asilo. Sappiamo l’accoglienza ignominiosa che lo attendeva. Stavo per dimenticare di menzionare, dal momento che è ovvio per chi ha conosciuto la sua natura, come mai, nelle nostre conversazioni, gli ho sentito pronunciare qualcosa di basso, vile, rancoroso o odioso. In un mondo sempre più degradato, dove tramontano tutti gli alti valori, Céline è stato degno di essere misconosciuto, perseguitato, vituperato, e di morire infelice, con gli onori della solitudine.