In una famosa commedia di Jonesco intitolata “Amedeo o come sbarazzarsene” si racconta di una famiglia che, trovandosi in casa un cadavere, cerca di sbarazzarsene buttandolo fuori dalla finestra. Sennonché, a mano a mano che cerca di spingerlo fuori dalla finestra, il volume del cadavere aumenta sempre più. E’ questa una metafora del problema che la nostra società consumistica, ribattezzata in modo incisivo da alcuni autorevoli ecologi, tra cui l’italiano Giorgio Nebbia, “società dei rifiuti”, si trova ad affrontare con l’aumento esponenziale dei rifiuti.
Dopo anni di dibattiti, di campagne per la raccolta differenziata, di proteste dei cittadini per la riapertura di discariche o la costruzione di inceneritori, che sarebbero la più appropriata soluzione tecnica a detta di esperti e politici, i rifiuti sono ancora un problema, ed anzi una vera e propria emergenza in molte città italiane.
Ogni anno in Italia produciamo circa 30 milioni di tonnellate di rifiuti solidi urbani. Stile di vita, precisi interessi commerciali, pressappochismo dei politici di ogni colore politico impediscono un corretto approccio al problema, mentre il moltiplicarsi di imballaggi di ogni tipo, anche difficilmente riciclabili (come i poliaccoppiati, tetrapak in testa), ha portato, negli ultimi vent’anni, ad un raddoppio della produzione dei rifiuti. I soli imballaggi si avviano a costituire quasi il 50% del totale dei rifiuti. Non gravati da alcun disincentivo economico a carico di produttori e consumatori, i contenitori usa e getta hanno invaso gli scaffali di supermercati e negozi ed aggravato il sistema di raccolta e smaltimento dei Comuni. Il risultato è stato che produttori e distributori si sono alleggeriti dei costi di gestione del ritiro dei vuoti e allo stesso tempo hanno scaricato sulla collettività il costo economico ed ambientale degli imballaggi e dei vuoti a perdere, di fatto pagati due volte dal consumatore: all’atto dell’acquisto e dopo, come rifiuto, con la tassa di smaltimento.
Il cuore del problema però non è come smaltire i rifiuti, è molto prima, è come viene progettato il prodotto. Se i produttori si preoccupano soltanto che il prodotto sia leggero ed attraente per il consumatore, ma se ne fregano della fine che fa dopo l’uso, continueremo a rincorrere un problema che via via avrà dimensioni e difficoltà di soluzione sempre più grandi. Eppure, come scrive Giorgio Nebbia: “i rifiuti sono merci usate, costituite dagli stessi materiali e molecole che erano presenti nelle merci nuove e che, in via di principio, potrebbero essere riutilizzate quasi integralmente.”
Non dobbiamo dimenticare che la responsabilità dell’immissione sul mercato di un prodotto e di un imballaggio è di chi lo produce e lo distribuisce, non certo della collettività e dell’ente locale che ne subisce l’invasione. E’ proprio necessario, ad esempio, che un cioccolatino debba essere avvolto da una stagnola, adagiato in un contenitore di plastica, racchiuso in una scatola di cartone, e che questa sia a sua volta cellofanata? Non potrebbero tutti questi imballaggi essere sostituiti da uno solo? Non a caso nelle direttive europee, in particolare nella 94/62 recepita dal Decreto Ronchi, si fissa una graduatoria nei criteri di gestione dei rifiuti, che pone in primo luogo la riduzione degli imballaggi e dei rifiuti; mentre gli inceneritori sono posti in coda dopo il riuso, il riciclo e il recupero di materie prime e solo prima delle discariche!
Credere, come auspicato da alcuni, che basti costruire inceneritori, magari chiamandoli con una tartuferia termovalorizzatori per utilizzare l’energia che producono, senza una seria e complessiva politica di riduzione e di recupero dei rifiuti, vuol dire che tra alcuni anni ci troveremo a dover costruire altre discariche e altri inceneritori. Questi ultimi, infatti, non fanno che spostare il problema: riducono la massa dei rifiuti, ma le ceneri residue – circa un terzo di quanto viene bruciato – abbisognano di discariche speciali ed i fumi, malgrado le più avanzate tecnologie, contengono sostanze nocive come le diossine.
Pur non essendoci in questo campo bacchette magiche, ci sono tre proposte fondamentali per una società sostenibile elaborate dagli ambientalisti, che vanno prese in seria considerazione: il vuoto a rendere con cauzione per la riduzione a monte dei rifiuti, la raccolta differenziata dell’organico per avviarli al compostaggio e la leva fiscale per orientare i consumatori verso comportamenti ecologicamente compatibili.
Esaminiamo in questa sede la prima proposta.
Come scriveva Paolo Colli, fondatore dell’associazione ambientalista Fare Verde, “il principio sembra perfino banale: se vuoi che una cosa non venga abbandonata, applica sulla sua restituzione un premio a chi la riconsegna e vedrai che quella cosa verrà restituita in percentuali altissime. Il vuoto a rendere su cauzione consente ritorni oltre il 90%, percentuale irraggiungibile per le raccolte differenziate italiane di plastica, alluminio o vetro” (Troppi nemici zero resa, in Gaia autunno 2004).
Il vuoto a rendere è un sistema che prevede una cauzione versata al momento dell’acquisto di una bevanda in contenitore. Tale cauzione è restituita nel momento in cui il contenitore viene ridato al venditore in modo che possa essere riutilizzato più volte senza diventare rifiuto. Il deposito cauzionale sul vuoto a rendere è il mezzo più efficace per il ritiro dei contenitori: infatti, il ritorno al loro produttore, ha percentuali di resa dall’80 al 90%, come dimostrano i risultati raggiunti in altri paesi europei del Nord Europa dalla Germania all’Olanda ai Paesi Scandinavi. Allo stesso tempo è un’efficiente misura di prevenzione per correggere comportamenti ecologicamente scorretti.
I contenitori usa e getta (plastica, tetrapak, alluminio) si sono imposti sul mercato grazie alla loro leggerezza. Ma questa leggerezza diventa un problema subito dopo il consumo: il contenitore usa e getta fa lievitare i costi della raccolta e dello smaltimento, in particolare per i materiali non biodegradabili, come la plastica e i poliaccoppiati. Al contrario i contenitori a rendere presentano notevoli vantaggi: 1) il contenitore non diventa rifiuto, quindi non grava sui costi di raccolta e smaltimento dei rifiuti e non va ad intasare discariche e ad alimentare inceneritori; 2) fa risparmiare le materie prime che sarebbero necessarie per produrre altri contenitori; 3) la sterilizzazione delle bottiglie a rendere richiede circa 60 volte meno energia rispetto alla produzione di nuove bottiglie; 4) garantisce un corretto comportamento del consumatore indotto dalla cauzione a restituire il vuoto con percentuali superiori a quelle che può offrire la raccolta differenziata.
Per quanto riguarda poi la leggerezza, che è l’argomentazione principale di chi si oppone al sistema del vuoto a rendere, va rilevato che il vuoto a rendere non è solo in vetro, ma anche in altri materiali: in Germania e in Olanda ad esempio la Coca Cola commercializza il suo prodotto in bottiglie sottoposte a cauzione in PET rigido che vengono riutilizzate tali e quali; in alcuni Comuni dell’Alto Adige le aziende di distribuzione del latte utilizzano bottiglie in policarbonato, che consente un riuso fino a 90 volte con una cauzione di 0,75 euro.
In Italia, le esperienze del vuoto a rendere sono sporadiche e confinate a poche aree geografiche, non essendo previsto, a differenza di quanto avviene nella maggior parte dei paesi europei, un sistema a rendere. Emblematico, a questo proposito, fu il caso della birra: ”alcuni anni fa – scriveva ancora Colli – il tentativo di introdurre in Italia il vuoto a rendere per i contenitori primari per birra – su cui erano d’accordo gli stessi produttori di birra – fu stoppato per le barricate subito alzate dalle lobbies della grande distribuzione e della plastica che con le loro pressioni sui parlamentari di tutti gli schieramenti fecero naufragare l’iniziativa al senato.”
Gli avversari principali del vuoto a rendere in Italia sono la grande distribuzione, che vedrebbero aumentare i costi di gestione; e i produttori di contenitori in plastica, che dovrebbero modificare i cicli di produzione dei loro prodotti. I beneficiari sarebbero la stragrande parte della popolazione, altri settori della produzione (vetro, policarbonato, PET rigido) e l’ambiente. Che cosa suggerirebbe, dunque, l’interesse nazionale?
@barbadilloit